Rivoluzioni violate. Primavera laica, voto islamista di Giuliana Sgrena è una sorpresa, fin dalla copertina, che riproduce Miss Hybrid 1, una foto della giovane artista iraniana Shirin Aliabadi, il cui lavoro, si dice, esprime i desideri delle giovani iraniane: hijiab, ciocche di capelli platinati, lenti a contatto colorate, piercing sul sopracciglio, un piccolo cerotto sul naso, segno di una recente chirurgia plastica. Allusione felice a identità in movimento….
Il libro (Il Saggiatore, pp. 229, euro 12,75) è un racconto vivace, a tutto campo, delle «rivoluzioni violate», da quella delle donne al volante in Arabia saudita, del 2011, fino alla inquietante formazione del califfato tra Iraq e Siria… La prospettiva in cui Giuliana Sgrena si situa, è duplice: quella delle donne dei paesi delle rivoluzioni con le loro lotte per la libertà, i diritti, la giustizia sociale; quella della giornalista per passione e professione, che cerca, osserva, interroga, e informa con puntigliosità e linguaggio asciutto. È un viaggio attraverso Tunisia, Egitto, Algeria, Libia, Yemen, in compagnia di protagoniste/i e testimoni di processi sociali grandiosi, di salti in avanti operati da movimenti pacifici e nonviolenti, che hanno in prima battuta cacciato vecchi despoti, ma spesso sono stati repressi con violenza da nuovi regimi autoritari: tra l’incudine degli eserciti e il martello di governi islamisti, usciti da elezioni.
È un libro sui processi e le contraddizioni che, con origini e spinte diverse, stanno cambiando la faccia del Mediterraneo del XXI secolo. Il protagonismo delle donne emerge con chiarezza, e viene anche spiegato che i processi di rivolta sociale, affondano le proprie radici, in anni precedenti, nelle rivolte del bacino minerario di Gafsa in Tunisia e nelle lotte operaie (il sindacato Ugtt è candidato al premio nobel per la pace), in quelle delle fabbriche tessili di Mahalla in Egitto. Alle rivoluzioni della dignità che hanno spesso voci femminili coraggiose, anche molto diverse, si oppongono altri processi: lotte per il potere dove primeggiano militari e partiti islamisti, per schiacciare la costruzione faticosa della democrazia, con un occidente sempre pronto a interventi armati distruttivi delle società, fomentatori di guerre civili, come in Libia e in Iraq, disponibile ad alleanze con gruppi armati, che servano al potere occidentale per il controllo di risorse primarie.
La condanna dell’islam politico (definito come strumentalizzazione della religione per fini di potere) da parte dell’autrice, è senza appello. Eppure un capitolo è dedicato a Tawakkul Karman, «il Nobel velato», coraggiosa giornalista yemenita, dirigente del movimento islamista radicale, al Islah, «in prima linea nella rivolta contro il regime», a cui è stato assegnato il Premio Nobel per la Pace nel 2011 (insieme a due liberiane). Opportunismo di Oslo o identità in movimento?
Leggendo Rivoluzioni violate mi è venuta in mente un’altra giornalista, appassionata conoscitrice del mondo arabo, la libanese Nahla Chahal, che parte da un punto di vista diverso. Nahla crede in un islam dei poveri, motore di «liberazione» (una parte dell’islam politico di movimento, si ispira alla teologia della liberazione nata in America latina). Ma anche il suo giudizio su Ennahda (Tunisia) come sui Fratelli musulmani (in Egitto) è negativo: «Non sembrano essere portatori di germi di una evoluzione verso un islam della liberazione, cioè progressista ed emancipatore, sia per quanto riguarda il governo della economia che sul piano sociale, dove il grado di ’compromesso’ con le rivendicazioni dei diritti delle donne, della libertà di espressione, ecc…variano da un paese all’altro, ma restano unicamente il risultato del rapporto di forza con le altre componenti politiche e sociali. Tutti presentano un lato eccessivamente pragmatico che tende a valorizzare l’adattamento alla realtà e un appetito di potere come fine in sé… anche il ’partito di dio’ (hezbollah, ndr.) sembra essere sprovvisto di qualsiasi visione globale del mondo e dei suoi rapporti. …Investire l’islam, questa gigantesca forza di mobilitazione, nella direzione di una teologia della liberazione richiede di più: la scelta del ’luogo’ a partire dal quale viene osservato il mondo e i suoi rapporti. Finché questo posizionamento, che è sociale, non solo intellettuale, non si realizza, i tratti che tutti questi movimenti presentano come prossimi ad una teologia della liberazione, restano minimi, rapidamente assimilabili al potere in carica e utili nel migliore dei casi al suo rinnovamento» (Inchiesta, n.180, aprile-giugno 2013, dossier sul Fsm di Tunisi).
Visioni distanti, giudizi che si avvicinano: c’è di che discutere. Il libro vi contribuisce egregiamente. Anche per questo è prezioso.