Probabilmente, Gerrit Rietveld con i legnetti trovati nei giardini e boschi circostanti costruiva fin da bambino giocattoli o piccoli mobili.
Era un’abitudine che gli veniva da lontano, quando – appena undicenne – aveva lasciato la scuola e cominciato a lavorare a bottega con suo padre, a Utrecht, dove era nato nel 1888 e dove morì sessantasei anni dopo, abitando nella casa che aveva costruito per una cliente assai speciale: Truus Schröder Schräder, ragazza ribelle, prima giovane e benestante moglie di un avvocato piuttosto conservatore, e poi dal 1923 inquieta vedova con tre figli, desiderosa di cavalcare i venti della modernità.

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Fu proprio Truus (su consiglio del marito che però non visse tanto da vedere l’edificio nuovo) a scegliere Rietveld per la seconda volta. Lui aveva già confezionato dei mobili con il padre per la vecchia dimora di Biltstraat; a lei gli arredi non erano piaciuti granché (troppo neogotici, i tempi erano cambiati) e alla fine, quel giovane creativo le aveva pure dato ragione. Anzi, era stato ad ascoltarla, affascinato dalla sua intraprendenza intellettuale e dalla chiarezza dei propositi che snocciolava. Oltretutto, Truus non incrociò le braccia nell’attesa: prese coraggio e non si accontentò più dei disegni che Rietveld le mostrava, preferendo collaborare attivamente alla loro realizzazione tridimensionale, con un fervido scambio di idee e dibattiti accesi.

La casa trasparente

La storia di quella coppia così speciale nella storia dell’architettura e dell’arte – spesso cancellata, o assolutamente posta in secondo piano dai manuali che affrontano le novità del linguaggio De Stijl – è un po’ il fulcro delle celebrazioni che Utrecht sta tributando all’avanguardia olandese, dedicate soprattutto alla figura di un outsider come Rietveld, falegname all’origine e geniale architetto (e designer) poi.
Si può dire che tra le strade di Utrecht si aggiri ancora il suo fantasma: basta fare una tranquilla passeggiata in bicicletta per finire davanti all’appartamento natale, al negozio di famiglia degli albori, alla successiva bottega diretta in autonomia, al garage edificato secondo le regole d’oro di De Stijl (materiali che l’industrializzazione ha reso disponibili a poco prezzo, strutture essenziali, open space al posto di muri divisori).
A Utrecht sono circa centomila le persone che attraversano la città su due ruote e la Cnn l’ha definita la migliore al mondo per chi ama spostarsi sfrecciando in bici: in alcune strade, le piste ciclabili sono addirittura più grandi di quelle per lo scorrimento delle macchine, il traffico quindi si forma al contrario.
Luogo di attraversamento, Utrecht (che quando fu fondata dai Romani prese il nome di Traiectum, appunto territorio di attraversamento del Reno), ha avuto nei secoli un’importanza strategica grazie alla sua posizione e la mantiene ancora oggi rispetto al centenario di De Stijl che va onorando. Conserva, tra le altre meraviglie, l’unico edificio realizzato (e non solo progettato) che segue le regole del Neoplasticismo, quella Rietveld Schröder House che l’Unesco nel 2000 ha indicato come patrimonio dell’umanità.

Pedalando, ci si arriva davanti, dopo un buon allenamento muscolare: la casa è gestita fin dal 1987 dal Centraal Museum, lo stesso che custodisce la più grande collezione esistente degli arredi «made in Rietveld» e che fino all’11 giugno ospita la mostra imperniata sui suoi capolavori, dalla sedia a zig zag fino all’immancabile e iconica Red Blue Chair.
Un’imperdibile tappa olandese per l’immersione totale in quell’utopia del Novecento che predicava una rifondazione del mondo a partire da una «spiritualissima» geometria.
Quando Thuus si rivolse a Rietveld per poter abitare nella casa dei suoi sogni, per inventare un luogo dove potersi muovere a proprio agio, all’inizio entrambi pensarono soltanto a una ristrutturazione della dimora già esistente. Ma l’idea si rivelò di ardua realizzazione. E così scartarono e sognarono in grande. Bisognava comprare un terreno e ripartire da zero, fare tutto a proprio gusto, ingannando con qualche oculato accorgimento anche le severe leggi per le costruzioni olandesi dell’epoca (infatti il pianoterra, per conquistare i necessari permessi, mantiene i muri ben visibili e gli spazi divisi). Era il 1924 e in soli sette mesi il progetto decollò: Truus, nonostante gli annunci di un suo spostamento ad Amsterdam, non abbandonò mai più l’edificio. Ci vivrà dal 1925 fino al 12 aprile 1985, anno della sua morte, mentre Rietveld stabilì a pianoterra il suo studio dal 1924 al 1933.

Spazi in relazione
Una vicinanza eccentrica, che legò indissolubilmente i due sebbene lui fosse sposato con figli: alla scomparsa della moglie, però, andò a abitare definitivamente con Truus. Lei, da parte sua, lasciò vacante la «sede» per un unico anno, affittandola a una scuola Montessori, metodo che aveva applicato anche con i suoi bambini.
La casa si affacciava su un paesaggio che apriva verso l’orizzonte e il piano superiore è immaginato tutto per esaltare questa vista: il concetto che guidò Gerrit Rietveld e Truus Schröder fu essenzialmente la continuità tra spazi esterni e spazi interni.

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Anzi, con un sistema di pannelli semoventi, la circolazione dentro l’appartamento era fluida, seguiva la luce naturale delle stagioni, non si interrompeva mai. Se poi si voleva un po’ di privacy, si ricostituivano le camere tirando le «pareti», come fossero quinte teatrali. Era una dimora come non si era mai vista, in cui trascorrere le proprie giornate in trasparenza e dove anche il tetto sfondava sul cielo. Un luogo di leggerezza, che ospitava i mobili-Rietveld in blu giallo e rosso, funzionale e insieme profondamente poetico (la Red and Blue Chair, secondo la proprietaria, era lo spirito di quel posto). E che rendeva palpabile l’intuizione degli esordi, quando il designer olandese cominciò a pensare «diversamente» dagli altri. «Dopo aver lavorato con un orafo, cambiai prospettiva e acquisii una nuova visione sull’architettura. Cominciai a fare cose da solo, senza sapere bene dove andare a finire… L’unica cosa che sapevo con certezza era che non volevo avere a che fare con le masse dei materiali, ma con lo spazio contenuto dentro». Da abbattere erano, innanzitutto, i confini e da valorizzare, invece, era un’idea di spazio «relazionale», simile a quella che Mondrian andava applicando nelle sue griglie.

In breve tempo, la Rietveld Schröder House divenne una mèta di pellegrinaggio sia per gli abitanti di Utrecht sia per chi veniva da fuori. Perse la sua reale dimensione per trasformarsi in un’icona della contemporaneità, davanti alla cui facciata potevano scontrarsi detrattori e sostenitori. Fra questi ultimi, naturalmente ci fu il russo El Lissitzky che già nel 1926 andò a visitarla, manifestando tutto l’entusiasmo possibile.