Sulla soglia dei cinquant’anni, autore di una ventina di romanzi che hanno venduto decine di migliaia di copie, Andreas Gruber è considerato una delle voci più interessanti del noir europeo, anche se la sua notorietà ha iniziato solo di recente a varcare i confini dei paesi di lingua tedesca e in modo particolare della Germania dove, nel corso dell’ultimo decennio, ogni suo libro è diventato un caso letterario.

Viennese d’origine, vive nella cittadina di Grillenberg, in Bassa Austria, lo scrittore è arrivato al poliziesco dopo essersi cimentato con racconti dell’orrore e di fantascienza, la vera chiave per capire il successo dei suoi libri va ricercata nella capacità di evocare senza mediazioni la paura e il dolore, e racconta di rilassarsi, tra la stesura di un manoscritto e l’altro, ascoltando heavy metal a tutto volume. Creatore di un’ampia galleria di personaggi e di più serie di romanzi, tra cui il cosiddetto «trittico della morte» di cui Longanesi ha pubblicato Sentenza di morte (pp. 514, euro 18,60), suo esordio italiano, Gruber è uno dei protagonisti della XIV edizione de L’isola delle storie. Festival letterario della Sardegna (oggi in dialogo alle 17,30 in Piazza Mesu Bidda con Matteo B. Bianchi e Tommaso Giagni) che si è aperto giovedi e si concluderà domenica a Gavoi.

«La vita è essenzialmente dolore». Sentenza di morte si apre con questa citazione di Arthur Schopenhauer. I suoi romanzi possono essere considerati come una sorta di esplorazione dei confini del male?
Credo sia necessario farlo. Esplorare questi «confini» è il senso stesso della letteratura noir o thriller. O, almeno, i miei romanzi cercano di farlo. Di capire perché alcune persone possono incarnare davvero il male e perché questo luogo, il mondo e le nostre vite, possono trasformarsi in qualcosa di terribile. La prima cosa a cui punto quando inizio a scrivere qualcosa è proprio quella di dare un volto al «male», attraverso la figura di un criminale efferato, di un assassino, spesso però non solo crudele o folle, ma anche molto intelligente e organizzato. Così che cercare di impedirgli di portare a termine i suoi progetti, di continuare ad uccidere persone innocenti, sia una vera sfida.

Nel libro si respira un clima inquietante e sono molti i particolari crudi che segnalano come si sia entrati in un territorio dove tutto può accadere. Anche se non si conoscessero i suoi precedenti come autore di racconti horror e di science fiction si sarebbe portati a credere che è questo l’approccio al noir che la contraddistingue. Di cosa si nutre il suo immaginario?
Sono cresciuto con i romanzi di Stephen King, come con i film di Mario Bava e Dario Argento, ma anche con «i gialli» cinematografici degli anni 60 e 70, e con le storie di Dylan Dog, di cui purtroppo solo 66 sono state però tradotte in tedesco. Oltre a King amo molto anche Dean Koontz, Dennis Lehane, Thomas Harris, Joe Lansdale, Nelson DeMille e Jean-Christophe Grangé. Quando, a metà degli anni Novanta, ho cominciato a scrivere racconti e romanzi mi sono perciò indirizzato subito verso l’orrore e la fantascienza. Poi, pian piano mi sono avvicinato al noir, cercando di conservare però quello stesso sguardo, le medesime atmosfere malsane che avevo amato tanto da lettore. La prima storia che ho scritto raccontava di due serial killer che si incontrano a Praga e iniziano ad uccidere insieme, prima di eliminarsi l’un l’altro: avevo fatto incontrare il thriller con quel mondo magico e misterioso che avvolge da sempre quella città. E comunque, fin dal principio, anche prima che i miei romanzi cominciassero ad essere apprezzati dal grande pubblico, mi è stato ben chiaro che non avrei scritto mai qualcosa di buffo o che cerca di strizzare l’occhio al lettore per farlo divertire: le mie storie incutono paura e non sempre contengono un lieto fine.

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Andreas Gruber

Le vicende descritte nel romanzo, in particolare il rapimento e le violenze sui bambini, sembrano però evocare anche dei drammatici fatti di cronaca che hanno scioccato l’opinione pubblica austriaca: i casi di Natascha Kampusch ed Elisabeth Fritzl, due ragazze che sono state rapite e hanno subito abusi per anni. La realtà le offre spunti per storie e personaggi?
Ogni aspetto della vita mi ispira, specie i più sconvolgenti. Quando parlo con la gente, quando accendo la tv per guardare i notiziari, quando apro il giornale, apprendo sempre così tante notizie orribili che spesso mi dico: «Per favore no! Perché nel nome di dio deve accadere tutto questo?». In questo senso, la scrittura mi serve anche come terapia, per la mente e l’anima. Nei miei appunti annoto eventi speciali e terribili che accadono nella vita reale, o che talvolta penso solo che potrebbero accadere. E poi cerco di confrontarmi con tutto ciò attraverso un romanzo. Perché le persone vengono ammazzate, e spesso in modo brutale? Perché i bambini sono rapiti, abusati, uccisi? Non riesco a capire come sia possibile. E allora inizio a scavare nella mente del possibile assassino, in chi vuole fare del male a degli innocenti, a degli esseri indifesi. Devo scavare, comprendere! Così, talvolta mentre sono alle prese con una storia mi confronto con degli psicoterapeuti, per inquadrare meglio questo o quel profilo psicologico, per saperne di più sui personaggi che compaiono nei miei libri. Perciò alla fine, il tentativo di esplorare la mente di un assassino si trasforma sempre in una sorta di viaggio al fondo delle tenebre.

L’attualità politica del suo paese, come la crescita dell’estrema destra e le grandi divisioni emerse in occasione delle recenti presidenziali, non sembrano interessarla invece allo stesso modo…
In effetti, non considero i politici come dei personaggi interessanti o stimolanti, in grado di incuriosire i lettori di un romanzo. Almeno in Austria. Al contrario, credo proprio che la letteratura possa rappresentare una sorta di alternativa a questo mondo sempre uguale a se stesso. Quando le persone sono più incazzate verso i politici, possono leggere i miei libri e cercare di fuggire in un altrove magari spaventoso, ma sempre più coinvolgente.

Veniamo ai suoi personaggi. Lei non si affida sempre agli stessi, ma ha creato almeno tre figure di investigatori che agiscono da soli o con dei partner, a seconda delle circostanze, e che sono protagonisti di diversi romanzi ciascuno. Perché questa varietà di interpreti?
Era l’unico modo per espandere in varie direzioni le mie storie che si nutrono di stimoli e influenze diverse, a cominciare dal fatto che sono pensate nella realtà austriaca o tedesca, ma spesso sono scritte secondo i canoni, o almeno è questa la mia intenzione, del noir americano. Così c’è Peter Hogart, l’«occhio privato» di Vienna che ama i vecchi film in bianco e nero e il perdersi nei mercatini delle pulci. Lavora da solo e fuori dagli schemi come i detective della Los Angeles di un tempo. Poi c’è il commissario polacco-tedesco Walter Pulaski della polizia di Lipsia. Irritabile, lunatico, ostile alla tecnologia che collabora con la giovane legale Evelyn Meyers per casi che hanno a che fare con processi, giurie tribunali. Infine, nella serie di romanzi di cui fa parte anche Sentenza di morte, si incontrano Maarten S. Sneijder, un profiler olandese davvero poco ortodosso rispetto alle figure cui ci ha abituato la letteratura poliziesca. Misogino e scostante, fuma marijuana quando vuole concentrarsi su un caso e cercare di entrare nella mente degli assassini su cui indaga. Con lui lavora Sabine Nemez, giovane poliziotta appena ammessa al Dipartimento investigativo federale di Wiesbaden, in Germania. Insieme seguono una lunga linea di sangue che un serial killer ha tracciato attraverso l’Europa.