Nel mirino, ora c’è Diosdado Cabello. Il presidente del parlamento venezuelano, figura storica del chavismo, è stato accusato di essere un narcotrafficante dal suo ex responsabile per la sicurezza, Leamsy Salazar. Per presentare la denuncia, l’uomo è fuggito negli Stati uniti dopo una sosta a Madrid ed è ora un dichiarante sotto protezione. A far scoppiare lo scandalo, un reportage pubblicato sul quotidiano Abc in Spagna. Il governo venezuelano ha confermato che Salazar è fuggito a dicembre, e Cabello ha smentito con forza le accuse: «Minacce, infamie, intrighi, abbiamo visto di tutto in questi anni di rivoluzione – ha scritto in twitter -, impariamo a navigare in questo mare di tempesta con il morale alto. Ogni attacco aumenta l’impegno, ringrazio infinitamente il nostro popolo per la solidarietà».

Secondo Abc, Salazar assicura che Cabello è a capo del cartello Los Soles, dedito al contrabbando di cocaina verso gli Usa. Un gruppo – dice il reportage – composto prevalentemente da militari (il loro nome proviene dall’emblema sulle spalline dei generali nell’uniforme venezuelana), e per questo vengono accusati di proteggere le rotte del narcotraffico anche ufficiali cubani.
Salazar non è uno qualunque. Militare di carriera e specialista in operazioni speciali, ha fatto parte della guardia presidenziale e poi del corpo di sicurezza dell’ex presidente Hugo Chavez. In seguito è diventato il capo scorta di Cabello. A dicembre ha chiesto un permesso, è andato a Madrid, ha preso contatto con i servizi Usa della Dea e ha consegnato la sua denuncia, accreditata dalla vicinanza ai più alti livelli di governo del Venezuela. Le sue accuse chiamano in causa anche il governatore dello stato Aragua Tarech el Aissami, già messo sotto attacco dai giornali di opposizione per le sue origini arabe e per le dichiarazioni in difesa della Palestina. Prendono di mira anche il fratello di Diosdado Cabello, José David, responsabile del Seniat (l’agenzia tributaria e delle dogane) e ministro dell’industria. Sarebbe lui il gestore delle finanze dei Los Soles e addetto al lavaggio del denaro sporco. Tutta l’operazione avrebbe al centro la compagnia petrolifera statale, Pdvsa, il cui presidente – dal 2004 al 2014 – è stato Rafael Ramirez, nominato a dicembre ambasciatore all’Onu.

Il quadro avvalora così l’immagine di uno stato narco-terrorista, che merita di essere colpito da sanzioni ancora più severe di quelle già decise dagli Usa, confermate da Obama ma non ancora operative. Sanzioni rivolte a funzionari governativi «colpevoli di aver violato i diritti umani dei manifestanti di opposizione» durante le violente proteste contro il governo, scoppiate a febbraio 2014 (43 morti e oltre 800 feriti).

Il governo venezuelano ha presentato un altro video di intercettazioni durante il quale si parla di «uccidere Maduro col bazuka» e i presidenti dell’America latina che si richiamano al Socialismo del XXI secolo hanno denunciato un tentativo di golpe come nel Cile di Allende seppellito da Pinochet. Altri hanno chiamato in causa il ruolo dei media nella “guerra di quarta generazione”: i giornali preparano il terreno per un attacco economico e poi militare, com’è avvenuto in Libia. In gioco c’è il petrolio venezuelano (Caracas detiene le prime riserve certificate del mondo) e il suo controllo. Se cade il governo chavista, si torna a mettere la mano su Pdvsa, in modo diretto o obliquo, come ai tempi della IV Repubblica e come sta avvenendo nel Messico di Enrique Peña Nieto. Maduro ha espresso solidarietà a Cabello, poi è volato in Costa Rica per partecipare al vertice della Celac. E a discutere la proposta dell’Ecuador per dichiarare l’America latina «territorio libero dalla povertà».