Osando allo spasimo nella vita e nell’arte, Il canto delle cicale di Marcella Piccinini si spinge «nei mari estremi» della malattia e della morte della madre dell’autrice, avvenuta nel 2021, ma anche nella ricerca-desiderio di lei, di coloro che ha amato e che la amano, nonché di sé e della propria essenza genealogica. Programmato al Biografilm di Bologna, è un’opera dal sostrato delicatissimo e a rilascio prolungato, la cui visione chiede di stare a macerare prima di poterne dire o scrivere.

Allora vedo emergere oche sperdute nella nebbia, sbalzate ai margini del tempo, di una strada nella Bassa, vedo Anna Maria che con passi incerti va incontro alla figlia che la sprona e l’«accarezza» con la telecamera, lei che, col piglio di una bambina, aspetta che Marcella, salita su una scala, le consegni a uno a uno i cachi raccolti… E poi un orto e i colori inauditi dei fiori – a fuoco e fuori fuoco, in un annebbiarsi della vista – e petali color vinaccia e coleotteri che vi si posano, e «poesie al telefono», e un diario datato 1983 (trovato mentre Piccinini cerca per Anna Maria le raccolte di versi del nonno materno, Luciano De Giovanni): lì si custodiscono i desiderata della donna per la figlia piccola, affinché le vicende legate al marito e alla separazione non ne tocchino la forza spirituale.

È una autobiografia che prorompe nell’incipit dal fondo pece, un prologo-antefatto (la scrittura è firmata con Marianna Cappi), dove l’autrice in voice over, rivolgendosi alla madre stessa, fa risalire la sua malattia a sette anni prima, «sette anni di vette e di abissi», seguiti al coma di Anna Maria, il cui corpo Marcella massaggia instancabilmente; poi, unite, praticano il sentiero luminoso e atroce della riabilitazione alla parola e alla vita, al canto amato di De André, finché gli assetti si infrangono, la madre non trova più pace, la figlia, sola, non vede più vie per aiutarla e, con travaglio infinito, decide di affidarla a una struttura.
Ecco allora che il film – sul ciglio dell’impossibile anche per la mancanza di una distanza anche solo temporale dagli eventi – si rivela come un progetto dalle antiche radici negli anni, quasi per Piccinini fosse una propaggine inseparabile dalla cura della madre. (Già in La mia casa e i miei coinquilini, Il lungo viaggio di Joyce Lussu aveva captato suggestioni e vite come alberi abbattuti).

Poi in questo tracciato irrompe la pandemia. E il doc, ispirandosi alla scrittura nell’arte – penso a Holzer, a Twombly, a Lai – finemente interseca ai tanti linguaggi anche la trascrizione grafico-poetica su foglio di quaderno a righe, con fiori violacei in filigrana, dei messaggi elettronici di Marcella con un amico di famiglia in merito alla salute della madre. Emerge così, da queste pagine scritte in tempo reale con il font della macchina da scrivere, lo stillicidio quotidiano delle comunicazioni con le rsa, la fatica segnata da uno sbuffare che sceglie di privare dell’ira sentita, la solitudine e la disperazione in cui gravitano i parenti, i tanti punti oscuri nella gestione della struttura. (E l’epifania del viso della madre trapassato dal dolore nel fermo immagine della videochiamata).

Anna Maria si ammala di covid e a Marcella, pur «incellophanata», è impedito di stringere la mano che la madre le tende. (A coloro che non hanno potuto salutarsi è dedicato il film). Per ore le legge al telefono Moby Dick, così come amiche e amici lasciano messaggi vocali con versi di Montale Leopardi Rodari, a lei che ha insegnato ai bambini, che ora è afasica e sempre crede nella poesia.

E se secondo Michelangelo Frammartino le inquadrature sono personaggi e come tali ricorrono, ne Il canto delle cicale tornano ossessivamente fiori e api, semi e terra, oche e farfalle, e il piegare e il riporre i tessuti, come fosse la minuziosa costruzione di un argine al dolore. Che continua a premere alla porta come gli scatoloni con sopra solo il cognome della madre, senza nemmeno un «gentile signora».

A tutto questo si aggiunge il fuoricampo immane del vissuto di chi guarda, gangli emotivi laceranti, quale che sia l’esperienza personale. E se è possibile sentire un’assonanza con Un’ora sola… di Alina Marazzi, qui non è la storia a dare il passo alle cose ma è il presente che, come un ombrello pietoso, si apre su ogni cosa. Generoso come il frinire delle cicale. È forse solo in questa dilatazione estatica dell’istante, in questa fede inamovibile nei cicli naturali e nel loro imperterrito rifiorire nel giorno del compleanno di Anna Maria, che un tale attraversamento può non uccidere. Irrorando invece le vene e consolando.