C’è una singolarità nelle opere di Fruttero e Lucentini, ma non riguarda la dibattuta vicenda della scrittura a quattro mani. Quella in verità è stata svelata dagli autori stessi della «Ditta» e confermata dalle analisi condotte a più riprese da Domenico Scarpa, che anche nel recente «Meridiano» (Opere di bottega, due voll., Mondadori, pp. CLXXIII, 1528+1445, € 140,00) ne dà conto nelle minuziose notizie sui testi grazie alle quali vengono messe in chiaro tutte le fasi delle operazioni di prescrittura, scrittura, correzione. Nel doppio «Meridiano» sono comprese le opere più note pubblicate a firma dei due (L’idraulico non verrà, La donna della domenica, A che punto è la notte, Ti trovo un po’ pallida, La cosa in sé, Il palio delle contrade morte, L’amante senza fissa dimora, Il colore del destino, Enigma in luogo di mare, La morte di Cicerone), del solo Lucentini (Notizie degli scavi), e del solo Fruttero (Con Lucentini aspettando Godot, Donne informate sui fatti, La linea di minor resistenza). Le migliaia di carte e cartelle che stanno dietro ogni volume del duo più famoso d’Italia, introducono al retrobottega: vediamo dunque i lavori preparatori cui gli autori sottoponevano le loro pagine, la rigorosa tessitura di ogni minuto elemento sottoposto al fuoco incrociato degli autori che si facevano le bucce l’un l’altro e riscrivevano più volte un passo fino a che entrambi non ne erano pienamente convinti.
È invece singolare il fatto che abbiano dato vita a un genere nuovo, il giallo italiano d’autore, creando romanzi che vendevano moltissimo e che celavano nelle loro pieghe dialoghi con testi perlopiù insoliti o del tutto ignoti al gran pubblico. Nei vari e preziosi backstage, i due dichiaravano con la massima disinvoltura che alle origini delle loro narrazioni c’erano i testi pitagorici, un certo saggio di Hegel, le Tabulae Iguvinae, il commento di Servio all’Eneide, il De Fato di Cicerone, il Lapis Niger e così via. Ed è sorprendente che queste opere siano state perlopiù accolte come letteratura di ‘consumo’.

Apparati a cura di Domenico Scarpa
Il lavoro davvero paziente messo in campo da Scarpa, al quale si devono le cure di altre raccolte dei due, induce a una constatazione e a una riflessione. Innanzitutto è evidente che quello che F&L hanno sempre continuato a ripetere corrispondeva alla pura e semplice verità. Il loro metodo di lavoro era del tutto artigianale e prevedeva una serrata dialettica, articolata secondo i tempi e la concentrazione di una partita a scacchi: a ogni mossa, a ogni intervento di natura creativa o correttiva di uno faceva seguito un intervento di risposta dell’altro, speculare contrasto, e su quella si innestava una ulteriore serie di mosse e contromosse, così fitta che tra proposte e controproposte non di rado avveniva che le posizioni si invertissero e ciò che prima era stato rigettato poteva successivamente essere fatto proprio. L’alternarsi delle fasi, come nella pittura a olio con i vari strati, produceva un ‘colore’ nuovo, nel quale quelli stesi in precedenza restavano leggibili in trasparenza e scarsamente distinguibili nelle loro tonalità originarie. La dialettica che di norma lo scrittore esercita come critico di se stesso, in questo caso diventa, grazie alla ricca documentazione qui presentata, teatro all’aperto, dialogo recitato che dà la misura del divertimento provato dai due, evidentemente indifferenti a ogni tipo di urgenza cronologica.
Anche nei loro testi non si avverte l’incalzare del tempo, che anzi subisce un processo di rarefazione da mettere in stretta relazione con l’attività che entrambi più di ogni altra cosa hanno praticato sin dall’infanzia: la lettura. Il tempo di F&L è uno spazio concreto, attraversabile secondo diverse direzioni e gli avvenimenti vanno estratti con pazienza e accortezza dal blocco informe della ‘realtà’. Nel Palio delle contrade morte, ad esempio, l’arrivo dei protagonisti in una villa sbagliata allude a un’uscita dalla dimensione quotidiana della velocità e della banalità e l’apertura alle incognite di una realtà parallela. E anche l’interesse per la fantascienza e il lavoro di direzione alla collana di fantascienza «Urania» (a parte l’inevitabile reminiscenza manzoniana del titolo) rappresentano, letti in questa prospettiva, un’eloquente presa di distanza dal quotidiano per orizzonti lontani e del tutto improbabili.
Nella notizia sul testo La cosa in sé, in un passo dedicato al Vecchio Stirner e al suo L’unico e la sua proprietà, oggetto della propria tesi di laurea in filosofia, Lucentini rievoca l’incontro con alcuni testi cruciali per la sua formazione e decisivi per la sua attività di scrittore: «Mi piacquero sui sedici anni gli Dei di Epicuro, che non si curano di noi, e mi confortò che il Dio-Natura di Spinoza non amasse (né odiasse) nessuno. Fu seguendo questa traccia che approdai al Tao Tê Ching … dopo il vecchio Lao-Tze scoprii e venerai il vecchio Stirner. Mi dispiace solo che allora, a condividere il mio entusiasmo per la “trouvaille” non ci fosse il vecchio Fruttero». Rileggere le opere di questo singolarissimo duo alla luce degli apparati forniti permette di cogliere nei testi risonanze e consonanze anche sorprendenti.
Leggerezza, curiosità, umorismo, le qualità più frequentemente chiamate in causa per definire lo spirito della coppia, sono il risultato di convincimenti più volte ribaditi: mancanza di fiducia nell’idea di progresso, nulla da sperare, da desiderare o da rimpiangere, divertirsi quanto possibile, che nel loro caso significava avere a che fare con i libri propri o altrui. Guardavano tutto con un cannocchiale rovesciato così che i fatti perdevano ogni pathos e le persone diventavano figurine da non prendere troppo sul serio. Ma ciò che rende insuperabile il loro lavoro è la più totale assenza di moralismo: stirnerianamente, davvero l’Unico è solo per se stesso e una volta che si sia sgonfiata la velleità di qualsiasi titanismo, tutto diventa piccolo e maneggiabile, un grado zero molto vicino allo stoicismo all’interno del quale per cortocircuito hanno luogo gli abbinamenti più inusitati: Tocqueville e il risotto, Canaletto e lo sceneggiato televisivo, sigarette e padri del deserto.
La letteratura ha il privilegio di rivelare risvolti curiosi e interessanti anche in ciò che sembra semplicemente mediocre e lo scrittore possiede il privilegio di far brillare i travestimenti del nulla. La rubrica televisiva L’arte di non leggere, tenuta su RaiUno nel ’94, li vedeva impegnati in conversazioni che si tenevano nel salotto (vero) di Fruttero, a chiacchierare con leggerezza di libri da leggere e di libri da evitare, muovendosi – sulla scorta delle indicazioni schopenhaueriane – da un libro all’altro ed evitando come la peste il rischio di cadere nella pesantezza dello specialismo. Una chiacchiera tra vecchi amici, un gioco di allusioni e cenni d’intesa che non richiedono né spiegazioni né indugi. Anche lì il metodo è confermato: nei confronti dei libri «nessuna timidezza, nessun imbarazzo, nessun snobismo, ma al contrario curiosità, disinvoltura, voluttuoso vagabondaggio attraverso il più fantastico e scintillante palinsesto che esista da più o meno tremila anni a questa parte». Il mondo dei libri come paese delle meraviglie, spazio dell’avventura per scrittori e lettori.
Dopo Manzoni, nessuna illusione
Assodato che dopo Manzoni non ci si poteva più abbandonare a eccessive illusioni, i due affrontano la scrittura come ragazzi che si lancino nelle desiderate vacanze. E delle infinite dispute per la scelta di un dettaglio non restano che la leggerezza e la vivacità della pagina scritta, depurata da ogni scoria e resa scorrevole e scintillante dalle scelte stilistiche operate. La cifra di questo linguaggio, frutto di pazienza artigiana su cui molto c’è da imparare anche oggi, risente indubbiamente, oltre che delle infinite letture e riletture di classici, antichi e moderni delle culture più varie, anche della solida esperienza acquisita come traduttori e direttori di collane editoriali che hanno marcato il panorama editoriale italiano del secondo Novecento. I loro esercizi di stile sono appunto di ‘bottega’, una modalità di lavoro più che un ambiente, che aveva dato loro un ‘orecchio’ attentissimo. Insomma da F&L si impara il mestiere di ascoltare e trattare il linguaggio, ma anche l’arte di stare al gioco, un gioco le cui regole millenarie non è dato cambiare. Nel dramma La morte di Cicerone, il filosofo andando incontro ai suoi carnefici dice: «Anche io, forse, avrò voluto ascoltare le mie Sirene».