Avventuriero, spia, negoziatore, mercante di schiavi, sette volte preda dei pirati e due volte convertito all’islam, usurpatore di altri nomi, inventore di diversi passati, diverse famiglie, diverse vite: tutto questo fu – o disse di esser stato – Giorgio del Giglio, il personaggio studiato da Florence Buttay in questa Storia vera di un impostore (Officina Libraria, pp. 248, euro 22,00).
L’impostura è un fenomeno relativamente frequente nel Cinquecento, un secolo che non conosceva sistemi di identificazione paragonabili ai nostri e dove i conflitti di religione obbligavano molti a nascondere le proprie vere opinioni e, in certi casi, la loro stessa identità: Giovanni Calvino, che prima di diventare il capo della Chiesa di Ginevra era stato anche lui un esule e un perseguitato, li chiamava nicodemiti, perché come Nicodemo riconoscevano Cristo solo di notte, mentre di giorno conducevano per paura una doppia vita.
Più che la frontiera tra confessioni cristiane diverse, era la frontiera tra cristianesimo e islam, rappresentata dal Mediterraneo, a innescare processi di frammentazione dell’identità individuale quale quello incarnato dal protagonista di questo libro. Nato sull’isola del Giglio verso il 1507, intorno alla metà del secolo questo Giorgio ricoprì dei ruoli di mediazione – il carattere largamente fantasioso dei suoi resoconti non ci permette ancora di essere più precisi – tra poteri cristiani (a partire dal suo sovrano Cosimo I de’ Medici) e poteri musulmani. Ciò rappresentava in quegli anni un capitale sociale che poteva rivelarsi prezioso, e Giorgio cercò di utilizzarlo mettendosi al servizio del miglior offerente, anche se venne subito circondato tra i contemporanei da quella stessa fama di millantatore che ora si sta piano piano guadagnando tra gli storici.
Quelli in cui vive Giorgio sono anni di conflitto molto aspro tra i due blocchi: lui stesso si vanterà di essere una specie di segretario di don Juan d’Austria, l’eroe di Lepanto. Ma il conflitto non escludeva – non esclude mai – gli scambi, a tutti i livelli. A un Giorgio del Giglio corrisponde, sull’altra sponda del Mediterraneo, il diplomatico di Fez Al-Hasan al-Wazzan, catturato nel 1518 da un pirata spagnolo, regalato a Leone X, che lo istruisce personalmente e lo battezza con il suo stesso nome: Leone Medici (è il Leone Africano di un bellissimo libro di Natalie Zemon Davis, Laterza 2008).
La conversione apriva spesso, a persone come Giorgio alias Muamet o Al-Hassan Al-Wazzan alias Leone, carriere impensabili in patria – soprattutto, a dire il vero, a chi si convertiva dal cristianesimo all’islam. Del resto, se pensiamo che il sultano ottomano stesso era spesso figlio di una donna cristiana, che i membri della sua guardia privata – i giannizzeri – erano scelti da bambini tra i sudditi cristiani e che, in fondo, anche chi non voleva convertirsi all’islam poteva professare le altre due religioni del Libro dietro al pagamento di una tassa, comprendiamo subito come il clima nel Levante non fosse certo quello di un’oasi di tolleranza, ma fosse comunque più respirabile di quello dell’Europa delle guerre di religione e delle inquisizioni. Questo ce lo conferma anche Giorgio, che per una volta non mente quando scrive che «se di qua si acharezzasse un turcho come fanno loro di noi altri, io crederei che tutti turchi dell’Anatolia verriano di qua».
Se le razzie dei pirati barbareschi e di quelli cristiani facevano incetta di manodopera schiavile con sostanziale reciprocità su entrambe le sponde del Mediterraneo, l’atmosfera persecutoria nei confronti delle minoranze religiose che vigeva in Europa – tranne in piccole zone franche, come Amsterdam e Livorno – faceva però sì che a migrare volontariamente fossero più i cristiani che viceversa. Se poi i casi della vita riportavano indietro chi, come Giorgio, aveva varcato la frontiera religiosa tra cristianesimo e islam, ad aspettarlo, o ad aspettarla, c’era un processo per apostasia, che certamente mirava al reintegro dell’ex rinnegato senza troppi scossoni, ma era pur sempre un processo d’inquisizione, di quelli che si sa come cominciano ma non come finiscono.
Una disparità così grande tra i due mondi, unita alla difficoltà delle comunicazioni, favoriva la nascita di racconti fantastici e incontrollati. È proprio questa circostanza che spiega la sostanziale mitomania di Giorgio del Giglio; una mitomania clamorosa anche in mezzo a quella foresta di bugiardi, imbroglioni, mentitori, lestofanti, avventurieri e bricconi di un secolo come il Cinquecento, che amò la maschera sopra ogni cosa. Quel che sappiamo di lui proviene infatti principalmente da due versioni manoscritte della stessa opera. Il Gran viaggio – così si intitola il manoscritto senese (l’altro è alla Vaticana) – è un racconto autobiografico dove l’eccesso di dettagli è inversamente proporzionale alla comprensione; dove i prestiti da altre opere sono così numerosi da farci dubitare fortemente della veridicità delle informazioni; dove infine descrizioni reali e descrizioni immaginarie si mescolano senza sosta. Ancora più stupefacente è che Giorgio si attribuisca addirittura origini inconciliabili tra loro: nel primo dei due manoscritti dice di discendere da un don Francisco Minadois, nobile portoghese che, emigrato in Italia, avrebbe sposato una nobile senese e ne avrebbe assunto il cognome Pannilini. Nella seconda versione, invece, sarebbe stato il membro dell’altra nobile famiglia senese dei Franceschi a fuggire dietro accusa di omicidio in Portogallo, dove si sarebbe sposato e avrebbe assunto il cognome della moglie.
E allora? Perché ci dovrebbe interessare un personaggio che, certamente, ebbe un ruolo nelle vicende del suo tempo, ma di cui risulta praticamente impossibile accertare l’impronta autentica che lasciò, in mezzo a tante tracce volutamente ingarbugliate e confuse? È proprio qui che si gioca la scommessa di questo libro: se ciò che sappiamo di Giorgio del Giglio ci parla più della società e della cultura in cui si muoveva che di lui stesso, è perché il talento dell’impostore si misura dalla sua capacità di adattarsi alle aspettative di chi lo circonda. Come ogni impostore, anche Giorgio sembra fantasioso, inafferrabile, irriducibile alla maggioranza dei suoi simili, ma in fondo, se vuole che qualcuno abbocchi alle sue iperboli e di conseguenza lo impieghi in qualche lavoro che lo salvi dalla precarietà esistenziale, deve sapersi accomodare ai desideri dei suoi interlocutori. Non si saprebbe come chiarire meglio questo paradosso se non con la metafora che utilizza anche l’autrice: «Solo il camaleonte sa veramente qual è il vero colore delle foglie, probabilmente molto meglio delle foglie stesse».
Qui tocchiamo l’aspetto decisivo del libro, che non è solo una storia romanzesca e appassionante, ma sotto una trama avventurosa riesce a nascondere con sprezzatura un impianto teorico e, come usa dire, una lezione di metodo: essendo qualcuno che attraverso l’eccentricità pretende di conformarsi alle aspettative della maggioranza, Giorgio del Giglio è uno di quei casi apparentemente straordinari che però, se sottoposti alla giusta lettura, possono illuminare anche il resto della società in cui vissero. A questo Zelig cinquecentesco si possono così attribuire le parole che Bruno Bettelheim nella parte di se stesso dice del personaggio creato da Woody Allen: «Se Zelig fosse psicotico o solo estremamente nevrotico, era un problema che noi medici discutevamo in continuazione. Personalmente mi sembrava che i suoi stati d’animo non fossero poi così diversi dalla norma, forse quelli di una persona normale, ben equilibrata e inserita, solo portata all’eccesso estremo. Mi pareva che in fondo si potesse considerare il conformista per antonomasia».