In una conferenza alla scuola di cinema La Fémis a Parigi, Deleuze aveva insistito sulla natura narrante della filosofia, mettendola strettamente in relazione con la prerogativa al racconto che è propria del cinema e si avvera attraverso «blocchi di movimento/durata», a fronte della narrazione filosofica fondata su concetti, una trama di teorie, mi viene da dire: prospettive, punti di vista che quindi hanno insita la dimensione figurale come interpretazione dell’esperienza e della sua oltranza. Dottorini, nella sua prefazione al libro di Martina Puliatti, La rivoluzione interiore. Corpi senza organi nel cinema di David Cronenberg (ed. Aracne), definisce contaminazione questa compenetrazione tra cinema e filosofia, e la situa in uno spazio di rappresentazione, un teatro in cui appunto si svolge la vicenda di questi personaggi-concetti. È quel «theatrum philosophicum» di cui Foucault aveva scritto in un saggio sul capolavoro deleuziano Differenza e ripetizione, palcoscenico in cui questi attanti concettuali, sagome sature di teoria, interagiscono mischiandosi l’uno con l’altro, in una promiscuità vitale, rizoma anziché arborescenza: per dirla nei termini di Lyotard, narrazioni anziché metanarrazioni.

Puliatti ha il merito di non porsi di fronte a questi termini considerandoli come consegnati una volta per tutte alla storia recente della filosofia, congelati in una successione di postulati accademici, ma di farne punti fermi di un’immanenza, di un’ipotesi di esperienza, qui e ora, nel pieno della catastrofe cibernetica, all’insegna di virus, del contagio, di una morbosità come risemantizzazione, variazione sul tema, del corpo.

CHE È il corpo senz’organi mostrato, fatto ribollire da Cronenberg già dalle origini del suo cinema, passando per la nuova carne di Videodrome, fino alla strana forma di brulicamento, intrinseco, cieco, tutto parlato di A Dangerous Method, su cui la nostra attenzione di critici non sarà mai abbastanza: come un’implosione, un’introflessione virale, libera, conturbante alla base dei dibattimenti che popolano il film, e degli amplessi tra Jung e Spielrein affioranti sulla superficie di uno specchio proprio da quel fitto parlare, o il coito di Otto Gross aggrappato ai seni di una serva prona, muta, trasposizione dialogica delle coreografie morbose di Crash. Corpi liberi di andare dietro alle proprie ossessioni, di anelare alle lamiere, alle plance, la pelle liscia dei sedili da lacerare, penetrare in un’orgia ruvida che preveda altri corpi affetti da autofili. Corpi inauditi, senz’organi appunto, senza l’inibizione esercitata sull’epidermide senziente da cuori e cervelli della società; avviati per strade rizomatiche, disordinate, disorganiche alla vita che schizza in secrezioni. E si potrebbe dire «schizo», il corpo schizofrenico di Deleuze e Guattari su cui innestare macchine del desiderio, meccanismi istintivi, anche malati, difettosi; dispositivi a impulso, a ossessione costante come un joypad tratto da eXistenZ: schizo-corpo che discende direttamente del corpo senz’organi di Artaud.

IL LIBRO in effetti parte da qui, dalla constatazione dell’impossibilità dell’Androgino di Artaud e dalla sua ipotesi di emendare il corpo dagli organi in favore dell’ascetismo, della pura paradossale ossessione sessuale del divenire-vergine. E arriva coerentemente fino al caleidoscopio dei corpi rizomatici disorganici dei film di Cronenberg, carne che tenta di trasformarsi al di là del canone della carne, che pullula informe alla ricerca di altri stadi, altre identità.