Un caffè, ma sostenibile per favore
Se dovessimo individuare un tratto distintivo della cultura italiana, potremmo senza ombra di dubbio partire dalla parola caffè. Un termine che identifica non solo la bevanda più amata, ma anche […]
Se dovessimo individuare un tratto distintivo della cultura italiana, potremmo senza ombra di dubbio partire dalla parola caffè. Un termine che identifica non solo la bevanda più amata, ma anche […]
Se dovessimo individuare un tratto distintivo della cultura italiana, potremmo senza ombra di dubbio partire dalla parola caffè. Un termine che identifica non solo la bevanda più amata, ma anche un vero e proprio luogo fisico che ha a sua volta plasmato un modo di intessere e alimentato relazioni sociali. Dalla «pausa caffè» sui luoghi di lavoro, agli appuntamenti «per un caffè» lanciati ad amici e conoscenti, per riprendere il filo di un discorso, per chiedere un favore, per confrontarsi sulle questioni della vita.
Il caffè è da secoli uno dei simboli dell’italianità e dello stile di vita italiano (per non parlare del piano culturale in senso stretto, dato che sulla rivista Il Caffè dei fratelli Verri è avvenuto tutto il dibattito illuminista italiano quando l’Italia non era unita), e sembrava dover rimanere invariato e intoccabile per sempre. Chi non ha mai pensato che gli unici al mondo in grado di fare un buon caffè vivessero tra Cortina e Lampedusa? Chi non ha mai alzato il sopracciglio di fronte alla richiesta di un «caffè americano» da parte di qualche eccentrico commensale al bar? Ebbene, tutto questo sta cambiando. Lentamente, ma sta cambiando.
Il grande monolite del caffè all’italiana sta pian piano mostrando delle crepe. Crepe interessanti, da cui filtra una luce nuova per illuminare un prodotto e un comparto in continua crescita. Un numero sempre maggiore di consumatori, in buona parte giovani, sta sperimentando un modo differente di scegliere, apprezzare e trasformare il caffè. Nascono ovunque, anche nella provincia profonda, micro-torrefazioni specializzate in caffè di singola origine, selezionati visitando direttamente i produttori, tostati dopo numerose prove mirate a mantenere il più possibile la qualità originaria del chicco. Accanto a queste piccole imprese di trasformazione, è sempre più facile incontrare bar che offrono una proposta di caffè articolata e varia, che propongono varie miscele in degustazione e che sanno raccontare la storia di ciò che beviamo dall’albero fino alla tazzina. Luoghi in cui quella stessa tazzina di caffè espresso non è più la regina incontrastata, minacciata da «tazzoni» di caffè filtrato o infuso perché non perda nulla del suo aroma. Un mondo nuovo, che poco a poco conquista sempre più persone pur rimanendo marginale. Un processo che, come sempre, passa per l’educazione dei cittadini. Perché se è vero che il mercato del caffè è in continua crescita, non dobbiamo dimenticarci che siamo di fronte a una delle commodity per eccellenza, il cui prezzo viene stabilito di anno in anno in borsa e in cui la concentrazione di settore pone spesso i produttori sotto scacco di un mercato impietoso. Basti pensare che per una tazzina di caffè che paghiamo un euro al bar, meno di tre centesimi vanno al produttore e meno di mezzo centesimo va in tasca al raccoglitore. Tutto il resto si spartisce nella fase finale della filiera.
Ecco allora che, se questa ondata di aria fresca sta investendo un mercato fino ad ora molto tradizionalista, l’auspicio è che a essere messa in discussione non sia solo la qualità organolettica ma che prima ancora parta una riflessione sulla sostenibilità di un settore in cui nel mondo 25 milioni di produttori di piccola scala forniscono caffè per un mercato in cui tre grandi torrefattori controllano quasi il 50% del mercato. Senza dignità per chi lavora la parola qualità non ha alcun senso.
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