Sandra è una giovane donna che vive sola insieme alla piccola figlia dopo la morte del marito. Le due hanno una relazione di vicinanza dolce, dividono un appartamento parigino, passeggiate, confidenze, racconti della scuola della bambina in giornate di fretta, ritardi, corse, pause come quelle di tante e di tanti a quel punto della vita adulta. Molto del tempo di Sandra è occupato anche dal legame (specialissimo) con suo padre, intellettuale di grande seduzione, filosofo specialista di Kant, che sta pian piano perdendo i contorni del reale a causa di una malattia neurodegenerativa. La casa dove vive all’improvviso è divenuta per lui un luogo pieno di pericoli, non vede più bene e non sa come usare le cose e le parole, la sua memoria è un luogo aperto e neppure i libri che lo circondano e che lei ama tanto possono più guidarlo. Qualcosa di triste per chi ha costruito su questo il suo pensiero (e con le parole e i suoi significati lavora anche Sandra che è traduttrice), eppure nella sua attitudine verso l’esterno non mostra troppa tristezza, ne ha forse più la figlia che con ostinazione non vuole arrendersi a un processo senza ritorno. Un beau matin, il nuovo film di Mia Hansen-Love – presentato alla scorsa Quinzaine di Cannes, che arriva in sala con Teodora, e il titolo italiano fedelissimo a quello originale: Un bel mattino – è un racconto di formazione sentimentale alla prima persona dell’autofinzione – illuminato dalla presenza di Léa Seydoux; a questa distanza narrativa la regista francese, anche autrice della sceneggiatura, confida il proprio vissuto, la malattia del padre filosofo morto due anni fa (qui interpretato da un magnifico Pascal Greggory) e la scoperta di un nuovo amore. Per la protagonista, Sandra (Seydoux), quest’ultimo arriva dopo cinque anni di solitudine, e grazie a un vecchio amico (Melvin Poupaud) studioso di scienze – lui si definisce un «cosmo-chimico» – che all’improvviso lei guarda in modo diverso.

Il film segue dunque, nel gioco di maschere fra l’autrice e il personaggio femminile, questo cammino emozionale in «parallelo» tra il distacco dalla figura paterna – l’uomo dovrà essere collocato in una Rsa – e la crescita di un rapporto di forte intensità fisica, all’inizio molto complicato (lui è sposato, i loro sono incontri clandestini di bugie e fughe, allez-retour di minuti rubati) in una quotidianità colta con delicatezza. Intorno ci sono altre figure – come la madre di Sandra, prima militante di sinistra ora macroniana (Nicole Garcia) e gli allievi del padre, oltre naturalmente la bambina con la sua semplice e serena accettazione degli eventi, tutti parte di questi piccoli gesti, di qualche inciampo, dei momenti che narrano la vita.

SI PUÒ DIRE – ed è una scelta che da molta critica, specie francese, le viene rimproverata spesso – che Hansen-Love fa della propria biografia sempre materia delle sue narrazioni, sin dal primo film, quel Tous est pardonné (2007) che l’ha affermata dopo qualche prova d’attrice, dei corti e l’attività di critica ai «Cahiers du cinéma»; e persino il precedente, Sull’isola di Bergman (2021), nella sua «rivisitazione» dei luoghi bergmaniani, ne è attraversato seppure in modo più obliquo, specie nel gesto del comporre storie. Ma questo significa anche accettare dei rischi, il narcisismo autoreferenziale per primo contro il quale si deve saper dosare ogni frammento, quasi magicamente, lasciarsi andare e insieme mettere a fuoco la «giusta distanza». Gli esiti sono a volte più goffi, a volte più compiuti, sempre però con un guizzo, qualcosa che afferma la sincerità di un racconto, un mettersi in gioco discreto, capace di restituire stati d’animo collettivi, che in Un bel mattino è particolarmente felice nel modo in cui si lascia portare dal flusso di questa esistenza.

COME si riesce a «tradurre» in immagini la vita di ogni giorno, a rendere i suoi dettagli esperienza comune, dare quella misura di un accadere nascosto? Sembra quasi impossibile eppure la regia di Hansen-Love, partendo da una dualità assai insidiosa, come quella della morte e della vita riesce a farlo, e di quel «binomio» fonde il movimento con fluidità e delicatezza. Nonostante il dolore realizza un film solare, in cui tutto scorre senza retorica né sottolineature, dai rapporti di classe che si disegnano nella geografia delle case di riposo – poco ospitali quelle in periferia, più calde quelle in centro – alla trasmissione del sapere, all’accettazione di quanto sorprende della vita con le sue scommesse, le paure di sbagliare, i nuovi inizi. A orchestrarli c’è il suo sguardo che intreccia questa semplice trama nella sensualità del suo filmare, la luce con cui accarezza il corpo di Seydoux e il suo essere nello spazio nei momenti dolorosi e in quelli di sereni; l’amore per i personaggi, per le loro fragilità e per quell’essere al mondo. Una cifra oggi rara, perciò ancora più preziosa.