Umori mefitici escono dal ventre di mezza Europa. Il Veneto oggi, la Lombardia ieri sono parte di questa Europa in disfacimento. La xenofobia razzista è un ottimo arnese con cui indirizzare le frustrazioni delle popolazioni verso nemici di comodo immaginari. La Lega è fin dalle sue origini maestra nell’arte della deviazione. Del resto, è proprio per questa sua funzione che l’establishment l’ha foraggiata, coccolata, tenuta al governo per vent’anni. Con altalenanti successi. Ma ora, con l’indebolimento dei dispositivi di comando del capitalismo europeo, c’è il rischio che negli stati a democrazia più debole i rianimati mostri barbarici sfuggano di mano. In Polonia come in Ungheria, nelle repubbliche dell’ex Jugoslavia come in Italia.

Impressionanti i flussi di voti (Swg e Istituto Cattaneo) a favore del «monocolore leghista» di Zaia (le tre liste leghiste sommate assieme raggiungono il 65%) che si mangia Forza Italia, ma prende oltre quattro punti percentuali dal Pd e altrettanti dal M5S che pure aveva ammiccato ai temi della «sicurezza». La Lega è l’unica che attinge (oltre 7 punti) anche dall’astensionismo. Non c’è barriera che tenga. Il discredito raggiunto dal Pd con le vicende della corruzione non è stato compensato dal Renzi «gran comunicatore». Il populismo di Grillo è già diventato «troppo politico». Persino il piccolo patrimonio dell’Altra Europa con Tsipras si è dissolto.
Per usare le parole del geografo Francesco Vallerani, il Veneto è «il labirinto oscuro delle geografie dell’angoscia».

Venezia era e deve tornare ad essere l’eccezione di questo Veneto.

Questa diversità, esplicitamente rivendicata e argomentata, può essere il vero punto di forza di Felice Casson.

Non serve andare a vedere cosa è successo a Barcellona con Ada Colau per capire cosa bisogna fare. Bastano le esperienze di tutti quei (pochi) sindaci «arancione» (da De Magistris ad Accorinti) che nel recente passato sono riusciti ad aprire dei canali di comunicazione diretta con la cittadinanza attiva e a liberarsi dalle paralizzanti pratiche di potere imposte dai «corpi intermedi», dalle lobby, dalle clientele.

Per farcela Casson ha bisogno di un di più. Ha bisogno dei voti di chi non è andato a votare. E per smuoverli deve saper dimostrare di prendere sul serio le ragioni della loro disaffezione. Il difficile è che molte di queste ragioni sono interne all’impostazione e al modo di fare tradizionale della sua coalizione.

Se ce la farà lui potremmo poi provare a risollevarci anche noi.