Paul Dirac era uomo di poche parole. Qualche mese dopo il suo arrivo all’Università di Cambridge – appena più che ventenne – gli veniva già riconosciuta una rara genialità; ma la sua silenziosa presenza rendeva arduo capire cosa davvero pensasse. Per questo, tra i suoi colleghi, il «dirac» divenne l’unità di misura del minor numero di parole pronunciabili da un essere umano, in una breve ma ragionevole unità di tempo. Di lì a qualche anno, nel 1933, quel giovane silenzioso avrebbe ricevuto il Nobel, «per la scoperta di nuove, fruttuose forme della teoria atomica». E, all’unico giornalista che riuscì a intervistarlo al suo arrivo in Svezia, per il ritiro del premio, volle candidamente precisare: «non mi interessa la letteratura, non vado a teatro, non ascolto musica. Mi occupo soltanto della teoria atomica». Eppure, nella mente di quell’uomo che non amava parlare, e sembrava non pensare ad altro che a formule, c’era qualcosa di affatto diverso da una postura algida; c’era l’aspirazione a cogliere la bellezza come espressione della verità dell’essere.

L’aspetto epistemico in secondo piano
Un desiderio, una inclinazione, che doveva avere per lui la forza di un amore senza limiti, se lo spingeva a trascurare (salvo casi rarissimi) le relazioni con i colleghi e con i conoscenti; tanto da suscitare il dubbio che fosse affetto da una forma particolare di autismo. La stessa sindrome, del resto, era stata attribuita a Isaac Newton, a Albert Einstein, e ad altri giganti delle scienza; quanto a Dirac, lui la riferiva al rapporto molto conflittuale con il padre, che lo aveva portato fin dall’infanzia a preferire il silenzio.

Negli scritti e nei discorsi non specialistici di Dirac – ora raccolti nel volume La bellezza come metodo (a cura di Vincenzo Barone, Raffaello Cortina, pp. 128, € 15,00) il termine «bellezza» ricorre spesso, e con maggiore evidenza del termine «verità». Di più: la verità (o verosimiglianza) di una teoria scientifica è ricondotta alla sua bellezza; ciò che è bello – secondo Dirac – deve essere vero. Questo ordine delle priorità nel discorso scientifico implica la subordinazione dell’aspetto epistemico a quello estetico (o, quanto meno, il loro venire a coincidere): si può dunque immaginare che l’atteggiamento mentale di Dirac nei confronti del mondo fosse di tipo erotico, piuttosto che normativo, o algoritmico. Di certo, dal suo punto di vista, non era di grande importanza che la Natura fosse fenomenologicamente bella; piuttosto, dovevano esserlo le teorie che la riguardano, e che puntano a individuarne le forme. La bellezza era dunque per lui un ideale regolativo, utile a individuare l’obiettivo teorico da raggiungere, il metodo da applicare, il criterio di verità dei risultati raggiunti.

In un articolo del 1963 per «Scientific American» (e in una trasmissione televisiva con Werner Heisenberg nel 1965), Dirac arrivò a sostenere che – laddove una teoria molto bella fosse smentita dal risultato di certi esperimenti – era opportuno sospettare della correttezza dei dati empirici, piuttosto che della verità delle relazioni matematiche. Ma cos’era mai la bellezza, per questo genio taciturno? E anche ammesso che sia possibile accordarsi sui criteri della bellezza (in generale), cosa può rendere bella una teoria matematica? Dirac era incline ad ammettere: la bellezza matematica «non si può definire, non più di quanto si possa definire la bellezza nell’arte».

ppure, secondo lui, «gli studiosi non hanno alcuna difficoltà a percepirla». In verità, leggendo i suoi saggi e i testi delle sue conferenze, qualche indizio per comprendere cosa fosse per lui la bellezza non manca: la potenza di una teoria, la sua necessità/inevitabilità (a partire da premesse molto semplici e generali), l’universalità (o invarianza, per gruppi di simmetrie), la semplicità (nel dominio teorico di appartenenza). Col senno di poi, si deve riconoscere, però, che l’aspirazione di Dirac – soddisfatta ad appena ventisei anni, grazie a un’equazione bellissima, che descrive in modo relativisticamente invariante il moto degli elettroni e di altre particelle – restò sostanzialmente inappagata per tutto il resto della sua vita; costringendolo anzi a prendere atto di teorie fisiche sempre più complicate e, dal suo punto di vista, assai poco eleganti. Per contro, l’idea che i matematici vivano una esperienza estetica speciale, quando sono esposti a formule o dimostrazioni particolarmente «belle», ha avuto in anni recenti inaspettate conferme, che consentono di comprendere meglio – almeno in senso fenomenologico – cosa possa intendersi in matematica, quando ci si riferisce al «bello».

Uno dei pionieri di queste ricerca è stato Gian-Carlo Rota: nel 1992, Rota ha osservato che, in ogni periodo storico, c’è in genere un notevole accordo tra gli specialisti, su cosa debba essere considerato come «bello». In particolare, questo accordo consisterebbe nel riconoscere che la matematica bella è quella «illuminante», cioè quella che getta luce sulla porzione della disciplina di cui fa parte, e anche su altre. Più recentemente, Marcus Giaquinto e Carlo Cellucci – arrivando a conclusioni difformi – hanno discusso il rapporto tra la bellezza della matematica e la sua capacità di fornire spiegazioni, entro il proprio dominio del discorso. In prospettive del genere, le caratteristiche estetiche della matematica sono ricondotte a (o confrontate con) quelle epistemiche, rovesciando in qualche modo il presupposto di Dirac.

La percezione di un fallimento
Altre ricerche degli ultimi anni, condotte in particolare dal neurobiologo Semir Zeki e dal suo gruppo di ricerca, hanno invece riassegnato alle caratteristiche estetiche della matematica una sorta di priorità cognitiva, arrivando in qualche modo a separare la bellezza dalla comprensione razionale: sorprendentemente, l’esposizione a formule «belle» comporta, in chi se ne intende, risposte emozionali analoghe a quelle che si hanno quando si è esposti a sorgenti visuali o musicali che provocano soddisfazione, o piacere, e risultano indipendenti dalla cultura, dall’educazione e dall’esercizio.

Risultati del genere non ci dicono cosa sia la bellezza, né tantomeno cosa si debba intendere in matematica con questo termine; assumono che il bello sia associato al piacere, o ve lo riconducono, senza fornire una ragione particolare di questo specifico effetto del bello. Però, in definitiva, si potrebbe anche dire che è un buon indizio del carattere auto-poietico del bello, e della sua potenza: qualcosa che trova in se stesso le ragioni delle sue caratteristiche. Allora, sotto questo profilo, è plausibile che Dirac avesse qualche ragione, quando affermava che la matematica lo aveva «preso per mano», per accompagnarlo verso i «territori» della sua bellezza: come se quest’uomo – che Niels Bohr descrisse come «stranissimo» – avesse alla fine capito di essere stato catturato da una sorta di incantamento e, inseguendolo, non fosse stato portato da nessuna parte; tanto da giudicare la sua intera vita – nonostante i successi della giovinezza – come un «completo fallimento».