In quella gigantesca zanzariera, tra Parma e Mantova, pur delimitata dal Po, sua buona e cattiva sorte e tanto cara ad un funambolo del linguaggio come Bruno Barilli, crescono talvolta dei covi di seduzione, di raffinata cultura e rara intelligenza che sanno unire mecenatismo e amicizia, convivio e solidarietà, parola e partecipazione. Lì, Montecchio nell’Emilia, a pochi tiri di schioppo da Parma, ma già in territorio reggiano, nel casale di Eden Tosi, tra produzione di aceto balsamico, buon vino rosso e una singolare biblioteca di poesia in cui il sottrarre libri è benvenuto e salutato con gioia, ospita il Teatro Granero.

Qui, in forma amicale, sono passati la Societas Raffaello Sanzio, l’Archivio Zeta, il Teatro delle Ariette e in ultimo la Compagnia della Fortezza che dopo, l’uscita bolognese di sabato scorso, il giorno successivo ha ripresentato in forma “casalinga” “A- Solo. Studi di assenza in pubblico”, la multiperformance solistica di Aniello Arena, l’attore-feticcio della compagnia di Armando Punzo, che dei “pezzi” ha curato “à la Kantor” drammaturgia e regia. Non è la prima volta che Armando Punzo preleva dalle sue creazioni collettive le autobiografie dei suoi attori.

In principio ci furono i due allestimenti, tra il 2005 e il 2007, de “Il libro della vita – Storia di Alì”, che raccontava l’emancipazione ottenuta, attraverso il carcere e la recitazione , da Mimoun El Baronui (esiste il dvd della performance di Jamel Soltani, lo stesso attore che, nel 2010, fu il solitario protagonista de “Il sogno di Faust” da Pessoa), e nel 2008 “Un silenzio straordinario”, liberamente ispirato a Beckett, con Placido Calogero, nei panni di un chapliniano Krapp, che dialogava a distanza con il Krapp storico di Rick Cluchey, allora ospite di Volterra Teatro.

Per questa via s’arriva ad A-Solo ed ad Aniello Arena. Prestissimo per lui ci fu la galera: Poggioreale a 18 anni e poi il salto di qualità, si fa per dire, da scippatore ad affiliato alla camorra che gli costa il “finepenamai”; e in più occasioni così si ricorda: “ero un pezzo di carne che camminava”. Poi venne Volterra, il carcere sulla rocca. E venne Armando Punzo e un’altra “fortezza”, la compagnia teatrale, formata da detenuti, che da quasi trent’anni nella dannunziana “erma” città dell’alabastro coltiva il sogno utopistico, ma mai così come oggi alla portata di mano, di un “teatro stabile in carcere”; e se ciò dovesse accadere sarebbe il primo al mondo. Dunque: quello tra il drammaturgo-regista di Cercola e l’ex scugnizzo di Barra è un connubio che va avanti da tre lustri. Solo allora, scomodando ancora l’estro poetico di d’Annunzio, sembrò che quella carne “ inerte si compose nel sarcofago sculto d’alabastro”.

L’inerzia della vita carceraria non riuscì a plagiare quel corpo, anzi sprigionò in Aniello una carica energica ed eversiva che aveva solo da essere incanalata e il teatro di Punzo come poi il cinema di Matteo Garrone si presero in carico il compito. Proprio la pluripremiata partecipazione da protagonista al film “Reality”, ha portato alla luce la storia di Arena che divenne poi un libro, per Rizzoli, “L’aria è ottima (quando riesce a passare). Questo è il punto di partenza di A-Solo, ma non poteva bastare come la lettura di molti libri – d’altronde questo è il metodo iniziale di Punzo nella costruzione dei suoi spettacoli – che puntualmente sembrava non portare da alcuna parte fino alla “scoperta” de La montagna incantata di Thomas Mann.

Ed è curioso che il personaggio di Castorp e la sua ascesa al sanatorio di Berghof a Davos, sulle Alpi svizzere, trasfiguri l’arrivo alla rocca di Volterra di Arena. E le similitudini tra Castorp e Arena possono continuare e rubricate in un elenco che in modo bizzarro porta a riflettere sulle fascinazioni storiche e cinematografiche esercitate da quel luogo. Ma, trovato il grimaldello letterario, a colpire nel segno è l’interazione che l’attore (con il suo regista) ha con il pubblico a cui viene continuamente demandata la scelta se ascoltare l’uomo e personaggio Aniello o l’Arena attore con tutti i suoi personaggi.

Ed è straordinario assistere al continuo trasformismo mimico o en travesti dell’attore. Qui, la tradizione del “mamo” napoletano pare fondersi criticamente e in modo inedito e tragico nella gestione misurata di una straordinaria mimica facciale, e al contrario esorbitante nei movimenti del corpo, che rende Arena unico sia nella proposizione a collage del Tebaldo di Mercuzio non vuole morire, del capriccioso di Hamlice, del Culafroi di Santo Genet sia nel riprendere le fila della sua autobiografia. Fino a concludersi nel lungo “assolo” tratto proprio dal capolavoro manniano. Fabio Francione