In questi tempi disseminati di orrori, l’eclettico Patrizio Esposito – grafico sopraffino, fotografo e videomaker proteiforme, insegnante di disegno, irregolare artista clandestino – ne ha approfittato per calarsi nel labirinto delle sue passioni, dove è molto facile perdersi inseguendo parole, note, appunti, frammenti di relazioni, riordinati in Cospira (Cronopio, 190 pg.,17euro), testo visionario e febbricitante, già nella terna finalista al Premio Napoli. Cospirare, respirare insieme, tramare con gli amati Antonio Neiweller, Fabrizia Ramondino, Thierry Salmon, tutti scomparsi, «creatori di scintille» che aiutano ad avere uno sguardo diverso, ad andare oltre le apparenze, ad abbandonare la «prospettiva lineare», il modo in cui si rivolgono gli occhi verso la nostra esistenza e l’attività artistica. Come e dove guardiamo?

Fotografie dei linciaggi degli afroamericani o di Abu Ghraib, «i neri sono quasi sempre dipinti al suolo, faccia a terra nelle baracche (…) su di loro risalta la figura eretta dell’aguzzino bianco in abiti civili: ha frusta e bastone nella mano ed è ritratto mentre colpisce i corpi distesi. Orizzontale-verticale, nero-bianco sono la geometria stessa del dominio razziale (…) Chi è in posizione dritta gode toni candidi, veste abiti eleganti nonostante il contesto drammatico, ha una posa autorevole. In posizione prona è il sottoposto, l’uomo da punire o da uccidere, l’incapace a star dritto». Dobbiamo liberarci dalle costrizioni dello sguardo, avere un’altra prospettiva, aggiungere curvatura e intensità, andare oltre con partecipazione e inventiva.

UNO TRA I TANTI sapidi capitoletti di questa crestomazia: Alle porte, basato sulla lunga frequentazione dell’ospedale psichiatrico Leonardo Bianchi di Napoli dove era stato internato uno zio, quindi visitato spesso nell’infanzia e poi digerito a fatica, con sconcerto perenne da adulto, in quelle stanze spoglie. «È il suono che tornava in testa a ogni ingresso nel Bianchi, fare di un uomo una cosa, farne roba, domarne l’inversa simmetria, reificarlo, per adeguare all’arredo manicomiale l’avanzo sgradevole».
L’oscenità della follia è riammessa «in pubblico se funzionale all’economia di uno Stato, di una regione, di una ditta, di un manicomio». E le ospiti del braccio femminile, «nella testa picchiavano i sussurri e i canti sconnessi, i guaiti, gli odori pungenti. Negli occhi i volti scomposti, gli abiti logori, le ciabatte spaiate e le andature oblique».
Nostro storico collaboratore in mille iniziative, da Sahrawi, voci distanti dal mare, cd e filmato a Kufia, matite italiane per la Palestina che accompagnava anche un libro di Fiabe di Wassim Dahmash, poi curatore del progetto Necessità dei volti sull’archivio fotografico custodito nel Museo sahrawi della guerra, autore schivo quanto tagliente, Patrizio Esposito ha elaborato l’immagine per Teatri Uniti e per i festival del teatro di Santarcangelo e Volterra, ha scelto di stare in mezzo, di scorgere le linee arcuate, di schierarsi sempre dalla parte degli scamazzati, dei poveracci, degli ultimi.

COME GIUSEPPE DESIATO, attivista in strada e performer, suoi lavori sulle scorze di pane, ottenute con un lento svuotamento della mollica, per nutrire chi incontra; altre sue opere eliminate o nascoste, non rese disponibili, «Desiato è l’automatico antagonista di qualsiasi canone accettato».
Come Nannetti Oreste Fernando, tenuto quarant’anni in custodia nell’ospedale psichiatrico di Volterra, disegni con penna bic nera, «solchi, reticoli, numeri, stelle, lettere, croci, tenui spazi vuoti». Fogli fotocopiati sfuggiti al macero, con la sua scrittura bustrofedica, «il muro reclusorio è stato piegato docilmente, la recinzione, da nemica, si è fatta pagina, una lezione». Divagazione sul mondo in precipizio, lettura volutamente frammentaria e cosmopolita, al seguito dei tantissimi incontri tra edifici sloveni abbandonati e contadini cinesi che dormono con la testa sulle fotografie, quelle vite ostinate e imprendibili, gli ostaggi giapponesi in mano ai guerriglieri Tupac Amaru, gli spartachisti africani di Haiti e la cenere, questo tema polveroso dell’umanità, tra Derrida e Lazza.

«Case come rifugio supremo degli affetti, come luogo della continuità dell’umano, come scudo e cura alla disgrazia che verrà. Ma tutto il costruito frana a breve, il tempo di finirlo. Ci domandiamo ‘come saranno le nostre stanze quando saremo portati via?’ ‘appariremo, in ombra, a presidiare la soglia?». In questa labirintica costruzione cartacea, che s’interroga con una scrittura essenziale e puntuta, il senso del tempo e il filo d’oro sembrano spezzarsi ogni volta, dalle Amazzoni libere e guerriere al Gustave Courbet della Comune, in rivoli difformi e inafferrabili di «quel quotidiano dialogo tra la tana in cui siamo e quello che intorno vive».