VALENTINO PARLATO
(IL MANIFESTO 31 MARZO 2004)

Luis Bacalov è un vecchio amico, abitiamo nello stesso quartiere e stasera siamo a cena con lui, Isabella, Maurizio, Delfina e io. Discutiamo del suo Stabat Mater che sarà rappresentato domani al Teatro dell’Opera di Roma. Luis è un uomo sincero e dice subito che l’idea non è sua, ma dei direttori artistici del Teatro dell’Opera, però lui si è subito appassionato. Lo Stabat Mater più famoso è di Jacopone da Todi (1230-1306) uomo che ama i piaceri mondani ma che dopo la morte della moglie entra in un ordine religioso. Jacopone ha affascinato Luis che, insieme a due sue amici, un argentino e un italiano, ha buttato giù il libretto, poi la musica, che è tutta sua. Luis Bacalov, proprio per la passione per Jacopone, ha voluto far rivivere lo Stabat Mater nell’Argentina delle madri di Plaza de Mayo: le madri dei desaparecidos; e sono tutte storie vere.
La prima madre è un’ebrea, una legalista del tutto ingenua, che quando viene un poliziotto a chiedere del figlio, lei chiama il figlio e gli dice di andare a presentarsi alla polizia perché tanto non ha fatto niente. Invece viene preso e sparisce nel nulla. La madre è disperata e si sente colpevole, colpevole di non aver capito. La seconda storia è quella di una maestra di scuola elementare il cui figlio viene preso dalla polizia e quando sa che le madri hanno organizzato una manifestazione nella Plaza de Mayo di Buenos Aires se ne va tutta sola nella piazza del suo paese col fazzoletto bianco in testa. La terza è la madre di un prete operaio che opera in una Villa Miseria, come si chiamano le favelas di Buenos Aires, anche lui preso e scomparso. C’è l’Odissea della madre con i poliziotti e i magistrati che dicono di non saper nulla e poi con i giornalisti divisi tra la volontà di dire e la paura di dire e poi, ancora, con i vescovi: quelli un po’ buoni e quelli molto cattivi, complici.
La quarta madre è quella silente, non canta. È una sindacalista venduta alla polizia da un infiltrato. Il tenente Alfredo Astiz, quello che dava un bacio come segno di una condanna a morte. Questa madre viene uccisa con tutti i suoi compagni sindacalisti e poi, in quanto baciata da Astiz, impiccata. E poi – ci spiega Luis – c’è la sua deposizione della forca, che deve far pensare alla deposizione di Cristo.
Chiediamo a Luis, che è un laico, che ha una madre ebrea e un padre anche lui ebreo, ma «mangia rabbini e socialista», perché per fare un’opera laica si è richiamato a Jacopone. La sua risposta è netta: «Perché Jacopone è un grande poeta e perché, come credo anche lui, non ho voluto fare un’opera sul dolore delle madri, ma sul coraggio delle madri; un coraggio che ebbe anche, come nei vangeli, la madre di Cristo».

Ma la conversazione non si ferma al libretto, che pure incuriosisce in questa traduzione laica dello Stabat Mater di Jacopone, ma anche alla musica: che musica ci metti in questa tua trasposizione dal religioso al laico? La risposta di Luis era attesa, ma tuttavia sorprende: sicuramente il tango. È, dice Bacalov, «un’opera tango, nel senso che è molto legata alla tradizione del tango argentino. Cioè un’opera popolare. Fare musica contemporanea per quattro raffinati intellettuali non mi interessava. Il linguaggio musicale di quest’opera è estremamente diretto, ma non elitario». Replichiamo a chiedere, ma perché il tango? La risposta è secca: «Il tango è lo specchio della storia, almeno di questa città che è Buenos Aires, che è anche la mia».Ma in questa tua musica c’è qualcosa di nuovo o di antico recuperato? La risposta è un po’ difficile. Dice Bacalov: «La mia è una musica tonale, mentre nel secolo scorso ha dominato la musica atonale».
Entrando in questo contesto di teorie musicali il discorso torna, quasi inevitabilmente, al Doktor Faustus di Thomas Mann. La risposta di Luis è egualmente netta: «Il protagonista del Doktor Faustus, Leverkhun è un musicista atonale. Veniva prima del nazismo. Qualche riflessione è d’obbligo». Parlando di tango la discussione cade ovviamente su Astor Piazzolla e Luis nega ogni relazione, pur dichiarandosi un fan di Piazzolla. «C’è il tango prima di Piazzolla – dice – ma dopo Piazzolla c’è solo il piazzollismo. Poi per quanto riguarda questo mio ultimo lavoro non credo ci sia molto di Piazzolla, forse c’è qualcosa del mio lavoro nel cinema».
A fine cena insistiamo con le domande. Una inevitabile è, ma quanti Stabat Mater ci sono stati tra quello di Jacopone e il tuo? «Certamente molti ma – risponde – ne voglio ricordare uno, quello di Pergolesi. Nella mia musica c’è una citazione di 15 secondi del primo pezzo dello Stabat Mater di Pergolesi. Io adoro questo pezzo, un grande capolavoro nella storia della musica». La conversazione torna sul Doktor Faustus; gli chiediamo, lo hai letto? Lo hai amato? La risposta di Luis è sincera: «Ho sempre avuto difficoltà a leggere Thomas Mann e soprattutto il Doktor Faustus. L’ho cominciato dieci volte e, finalmente, l’anno scorso l’ho finito. Dopo ho capito che Mann ha scritto una tremenda accusa contro la Germania dei suoi tempi. Il diavolo è il prodotto del nazismo. È il romanzo della follia della Germania e anche di questa nostra civiltà. È la conclusione angosciante di questo Stabat Mater laico, che forse non parla solo delle madri di Plaza de Mayo, ma anche di noi».

 

GABRIELLE LUCANTONIO
(ALIAS 25 AGOSTO 2007)

Per molti, il maestro Luis Enrique Bacalov è innanzi tutto il vincitore del premio Oscar per la colonna sonora de Il postino (1994), dimenticando spesso che lavora nell’ambiente del cinema italiano da oltre quarant’anni e che ha collaborato con i più grandi registi, nei generi più diversi, da Pasolini (Il Vangelo secondo Matteo) a Fellini (La città delle donne), da Francesco Rosi (La tregua) a Elio Petri (A ciascuno il suo), e ancora Damiano Damiani (Quien sabe?), Fernando Di Leo (Milano Calibro 9), Luciano Salce (La pecora nera), Sergio Corbucci (Django). Alla Mostra del cinema di Venezia, nell’evento-omaggio allo spaghetti-western, verrà appunto proiettato il celeberrimo Django, del quale ha scritto la colonna sonora nel 1966.

Negli anni ’60 e ’70, lei lavorava già tantissimo nel cinema italiano. Nel cinema colto, fino ai più diversi generi, principalmente il western e il giallo.
Sì, ho iniziato come compositore di canzoni e a poco a poco mi sono dedicato alla musica da film che mi interessava maggiormente. Si usava passare indifferentemente da un tipo di film a un altro, era lavoro. Eravamo dei musicisti e ci si adattava al genere al quale si stava lavorando.

Lei ha composto le colonne sonore di diversi western all’italiana, tra i quali «Django» di Sergio Corbucci e «Quien sabe?» di Damiano Damiani. Come si è svolta la lavorazione con Corbucci?
È stato abbastanza semplice, tutto è filato liscio. Django era un western strano, era un film colto all’interno di un filone che non era sempre molto consistente. Ma il film ebbe un grandissimo successo di pubblico e lanciò l’attore Franco Nero, che non era assolutamente conosciuto prima. In Italia, ci si discostava abbastanza dai western all’americana, sia per la regia, che per la sceneggiatura, il montaggio e la musica. Erano film sempre al di sopra delle righe, a partire da Per un pugno di dollari di Sergio Leone, si era creato un genere più esagerato di quello americano, ma che era anche più creativo e ironico.

In «Django» c’è una una canzone che sembra più un tipico motivetto beat degli anni ’60 che una struggente ballata da cowboy del profondo west…
Sì facevano western in continuazione e si scrivevano musiche che potevano sembrare strane o anacronistica… Realizzare un pezzo come quelli che andavano per la maggiore in quel periodo poteva sembrare un po’ dissacrante. Soprattutto non si volevano copiare gli americani. Era un’operazione diversa, con un pizzico di ironia. Quindi la musica beat nel film western poteva anche starci, se si considerano le cose sotto questo punto di vista.

Ha scritto altre canzoni «beat» in altri film western, come per esempio, quella per la colonna sonora di «Lo chiamavano King» di Romitelli (1971)…
Sì, ma si trattava di un film di poco conto, ho realizzato questa colonna sonora solo, come si dice?, per motivi alimentari.

Rispetto alle musiche create da Ennio Morricone per i film di Sergio Leone, cosa c’era di diverso?
Fondamentalmente, sono più attento a un mondo più arcaico, più folkloristico. Tengo conto del folk, di certe soluzioni più semplici, come l’utilizzo di un flauto solo. Ovviamente, scrivendo musica per western all’italiana si riecheggiano alcune soluzioni di Morricone. Era impossibile non farlo. Ma lui è molto più lirico e occidentale.

Che tipo di strumenti utilizzava?
Non mi sono discostato della tradizione, le chitarre spagnole, classiche, ma anche elettriche. Quelle elettriche, mi piacevano perché hanno una sonorità molto particolare. Poi si utilizzavano delle orchestre mediamente sinfoniche. Nulla di strano.

Che differenza c’è tra scrivere la colonna sonora di un film western e quella di un giallo come per esempio «Milano Calibro 9» di Fernando Di Leo?
Il western all’italiana aveva codificato un certo tipo di elementi, e in qualche modo era isolato e non c’entrava assolutamente nulla con gli altri generi. Non credo che ci fossero relazioni tra gli spaghetti western e gli altri stili. Se non si rispettavano i codici del genere, non poteva andare bene. La libertà compositiva era tuttavia relativa.
Un altro film western famosissimo per il quale ha lavorato è «Quien sabe?»
Sì, anche se non capisco perché di solito la gente dice che si tratti di un film western. Quien sabe? parla della rivoluzione messicana. Sbagliano quindi, si tratta di un film storico, che tratta di un certo periodo in America del sud. Ovviamente, ci sono degli elementi come l’assalto al treno che possono far pensare a un film western. Però nell’insieme non si tratta di un film western, è molto più corposo rispetto alla maggior parte dei film che si realizzavano allora in Italia. Da affrontare.

Il suo essere argentino l’ha aiutata a realizzare colonne sonore per i film western?
Mi sembra ovvio che alcune cose che si riferivano al folklore del mio paese mi abbiano aiutato per Quien sabe?, d’altronde Damiano Damiani mi scelse proprio per quel motivo. Sono sempre stato orgoglioso della musica etnica argentina e ho sempre cercato di non dimenticarla, di studiarla e di suonarla. Al di là del cinema, propongo musica argentina nei miei concerti e ho anche realizzato dei cd sul tango. Soprattutto ho proposto delle musiche del mio paese al teatro dell’Opera, in uno spettacolo incentrato sul dolore delle madri dei «desaparecidos» argentini. È stato un modo di affrontare le mie radici profonde, che si trovano nel tango, e di rielaborarle attraverso la cultura musicale del Novecento storico.

Che differenza c’è tra comporre musica applicata al cinema e altre forme di composizione?
Quando lavori da solo fai i conti solo con te stesso. È un lavoro diverso, molto più libero. Tra l’altro la musica del cinema ha delle regole ben precise che bisogna rispettare: gli stili possono essere molto diversi, però c’è un modo preciso in cui devi scrivere. Deve essere funzionale alla scena che si svolge sullo schermo, non puoi inventarla dal nulla. È un altro mestiere.