Chiunque guardi bene un’opera d’arte, ovunque capiti di incontrare quel fluido reminiscente e avveniristico capace di parlare a parti atrofizzate o mai esistite delle nostre passioni e dei nostri desideri, portandole al mondo (per dirla alla Boetti), non potrà non notare che attorno a «quella cosa» girano e gridano e ridono le visioni che ne hanno consentito la nascita.

New men’s land, storia e destino della jungle di Calais, per Deriveapprodi (prefazione di Nicolas Martino, postfazione di Marco Trulli, pp.96, euro 12) di Gian Maria Tosatti, che espone al Museo Madre di Napoli un progetto diverso da quello raccontato nel libro («sette stagioni dello spirito», una metropolitana con tutte le fermate di una vita, la bellezza, la bruttezza, il miracolo di una comunità di bambini che smettono di dare nomi e date ai proiettili e cominciano a plasmare la materia e la vita, l’orrore di un ufficio anagrafe con la sua ripetitiva ottusità e l’esistenza scandita in nascite, pratiche, matrimoni, decessi), è la storia di un’opera che non è nata ma che è comunque esistita.

Un arcobaleno di ferro e legno e bulloni, dal peso di qualche tonnellata, sette (di nuovo il sette per gli amanti della cabala!) colori, venti metri di altezza per cinquanta di larghezza. Avrebbe avuto ai suoi piedi il tesoro meno scontato di questi tempi: la vita nuova dell’Europa. Migrazioni non respinte, una civiltà che invece di morire sceglie di nascere, la fine dei confini e dei loro precipitati istituzionali, le sovranità.

Un arcobaleno su Calais, «per invadere la narrazione di quel luogo». Un posto piantato «tra le tre grandi capitali del colonialismo di ieri e di oggi, Parigi, Londra e Bruxelles, dove sono arrivati senegalesi, eritrei, afghani, curdi, tutti assieme prima di giungere nelle città dell’occidente per insegnare la gioia di vivere, prima di disperdersi in questa decadente Europa per insegnare a essere liberi, prima di andare al di là dell’oceano per insegnare come si è fratelli».
Il lavoro di Tosatti non è cominciato in uno studio con la porta chiusa. È iniziato lungo molti viaggi fatti a Calais, durante i momenti di emergenza umanitaria, quando le frontiere si facevano più cattive perché gli sbarchi più numerosi. È proseguito camminando, da solo o accompagnato da altri artisti, come Alessandro Bulgini, per la giungla dei non diritti, tra le mangrovie urbane dei senza nomi, ed è diventato idea e da lì si è fatto azione; trovare i soldi, tra l’altro, delle azioni per lottare. Le risorse, racconta Tosatti, furono trovate quasi subito, prima di ritornare a Calais, furono trovate perlopiù a Napoli (un caso?). La burocrazia francese, invece, non rispondeva alle chiamate, disdiceva appuntamenti con un’ora di anticipo.
La Jungle, così è stato chiamato questo pezzo di terra di spalle alla Manica, dove è nato, diciamolo con un linguaggio mainstream, uno dei campi profughi più grandi d’Europa intanto esponeva al mondo le sue ferite, le sue domande.

Lo stradone era aperto dal Caffè Kabul, quattro tavoli e una caffettiera su un fornello a gas e poi tende, tante tende piantate a disegnare una mappa di desiderata (una vita migliore, una vita senza guerre, una vita senza povertà).

Quelle visioni sono bruciate assieme a tutto il campo, lo scorso anno tutto l’insediamento è stato raso al suolo dalla prefettura. L’arcobaleno non è mai stato costruito e un mondo nuovo non ha ancora il suo simbolo. I migranti continuano a vivere su una zona lunare, in attesa che il mondo si faccia migliore. Nell’accampamento sono arrivati a vivere settemila migranti. La Francia prevedeva un campo con al massimo millecinquecento persone.

Per rispettare quest’obiettivo, gran parte della giungla è stata distrutta ed è stato approvato il divieto di montare tende o organizzare accampamenti. I militari presidiarono la striscia di terra larga cento metri che correva lungo il porto. Ma anche se lo spazio diminuiva sempre di più, le persone che arrivavano aumentavano. Ed è questo l’arcobaleno: nonostante tutto i desideri degli uomini sono più grandi delle loro stupidità.