Dunque l’intero mondo dello spettacolo italiano diventa un buco nero, un enorme cratere dove sembrano destinati a sprofondare, oltre agli spettatori ovviamente, soprattutto attori e tecnici, compagnie e strutture, stagioni e calendari, non solo presenti ma anche a venire, per i molti che cercano di non improvvisare all’ultimo momento. Soprattutto, traballano pericolosamente scritture e impegni. E quindi i diritti dei lavoratori con i loro contratti sempre precari e temporanei, che davanti alle «cause di forza maggiore» insiti nella difesa dal coronavirus, si sgretolano e si sfarinano come polvere nel deserto. A parte qualche teatro minore e qualche multisala cinematografica, pochi pensano di poter giocare quella partita a scacchi con uno spettatore ogni tre poltrone (che non è quella elisabettiana di Middleton, e neanche quella «vivente» di Marostica) che il decreto governativo offre come unico escamotage per poter continuare a lavorare.

SE L’EMERGENZA c’è deve valere per tutti i lavoratori, soprattutto per quelli che al precariato della «scrittura» (e della partita Iva) sono costretti da sempre, nel teatro, nella danza, nella musica. Il ministro Franceschini (anche se esausto dai compiti di capodelegazione pd al governo) e il suo dicastero dovranno inventarsi ed elaborare qualche tipo di disciplina, un qualche «antilogaritmo» che consenta se non il recupero totale (di sicuro impossibile) almeno un parziale risarcimento per l’inattività forzata di un esercito di lavoratori, «oscuri» o alla ribalta che siano. Lo hanno chiesto subito alla promulgazione del provvedimento governativo gli attori associati nell’Apti, lo chiedono le compagnie e tutti gli artisti (esercenti compresi) che da questo salto nel buio produttivo non sanno proprio se e quando usciranno. Lo chiede una petizione di critici del settore.

DEL RESTO è stato lo stesso ministro a promuovere e mandare in vigore in un precedente governo il nostro attuale meccanismo, macchinoso e a tratti ancora oscuro, di finanziamento alle attività culturali. Cui liberamente, e spesso estremizzandolo e complicandolo ulteriormente, si sono adeguati enti locali e istituzioni secondarie, con conseguenze anche discutibili e devianti, come la corrente clausola del «massimo risparmio» nei bandi pubblici per le attività culturali. Ora è il momento di rimboccarsi le maniche, magari dopo aver messo la mascherina, e trovare soluzioni e meccanismi che almeno parzialmente ripaghino e garantiscano i più deboli ed esposti tra quanti nella difesa collettiva e sacrosanta dalla annunciata catastrofe biblica del virus, rischiano di perdere letteralmente, e senza tante possibilità di salvaguardia, diritti e bisogni elementari.