Il centenario della Prima guerra mondiale ha visto proliferare anche in Italia le iniziative: accanto alle celebrazioni patriottiche e agli scomposti usi politici, fra 2015 e 2018 si sono avuti anche esiti più seri, come il rilancio delle ricerche storiche. Il primo dopoguerra, al contrario, non ha finora sollecitato molti studi, nonostante il rilievo assoluto della fase storica, fra crisi della classe dirigente liberale, divampare della conflittualità sociale, presa di parola delle classi subalterne e origini del fascismo. Dobbiamo ora a Roberto Bianchi – docente presso l’Ateneo fiorentino e già autore di importanti lavori (a partire da Bocci-Bocci. I tumulti annonari nella Toscana del 1919, Olschki 2001) – una scorrevole sintesi sul 1919. Piazza, mobilitazioni, potere (Università Bocconi Editore, pp. 169, euro 15), preziosa perché, come sostiene l’Autore, «il centenario delle grandi mobilitazioni popolari è stato sostanzialmente ignorato».

TORNARE AL 1919 significa prima di tutto fare i conti con il «diciannovismo», etichetta che si potrebbe pensare abbia guadagnato un meritato oblio. Termine nato a ridosso di quegli anni, usato positivamente dai fascisti (a indicare lo spirito originario del movimento) e poi in accezione opposta dalla Storia di quattro anni di Pietro Nenni (1925), divenne nei decenni successivi «una sorta di sinonimo di rivolta irrazionale senza prospettive». Il Pci, ad esempio, denunciò il movimento del 1977 facendo ricorso all’accusa di «diciannovismo». Al di là di queste tracce storiche ormai remote, Bianchi passa in rassegna anche sorprendenti riusi, che definiscono «diciannovisti» recenti mobilitazioni, come quella dei «gilet gialli». Se è evidente che questo anacronismo non regge, è ancor più importante ribadire con questo libro che «non fu diciannovista nemmeno il 1919». Cosa fu, dunque?

Bianchi non è interessato a una cronaca degli «avvenimenti» dell’annata. Da studioso formato alla scuola della migliore storia sociale colloca il 1919 in una fase più ampia e in processi più profondi. Come negli altri Paesi, gli animi furono segnati durevolmente dall’esperienza devastante della guerra tecnologica di massa, con i suoi lutti e le sue miserie, ma anche con le sue spaccature sociali. Le mobilitazioni popolari, parte di un ciclo europeo 1917-1920, attinsero ad antichi repertori di protesta intrecciandoli a nuovissime forme di azione. E lo stesso fascismo non fu solo una risposta a quelle agitazioni o alla paura del bolscevismo, bensì un progetto maturato da esperienze precedenti, come il nazionalismo politico prebellico, l’interventismo e la mobilitazione della Grande guerra.

IL LIBRO passa in rassegna i tre aspetti fondamentali del 1919 dei subalterni. Le lotte nelle campagne, diversissime a seconda dei contesti e delle classi coinvolte (dalle occupazioni di terre nel Mezzogiorno ai conflitti di tipo sindacale dei braccianti padani), evidenziarono l’«esaurimento dell’egemonia delle classi dominanti di sempre», i proprietari terrieri. I moti contro il «caroviveri», cioè contro i rincari dei beni di prima necessità dopo la fine della gestione statale dell’approvvigionamento introdotta in guerra, dilagarono in tutti i centri urbani d’Italia, delineando una vera e propria «situazione rivoluzionaria».

Le organizzazioni del movimento operaio conobbero una crescita tumultuosa e furono protagoniste, a livello locale, dell’ondata di conflittualità, ma su scala nazionale evidenziarono più di un limite: lo «scioperissimo» internazionale contro la guerra alla Russia rivoluzionaria, fu un successo in Italia (il governo Nitti ritirò le truppe), ma evidenziò divisioni, indecisioni e delusioni, mascherate dall’affermazione socialista alle elezioni politiche dell’autunno. Bianchi ribadisce opportunamente che in tutto l’anno le violenze dei manifestanti furono ridotte e spontanee e dunque incomparabili con quelle della repressione statale e poi dello squadrismo.

IL TRIONFO ELETTORALE socialista sarebbe stato raddoppiato con la conquista di molte amministrazioni locali alla fine dell’anno successivo, nel corso del quale sarebbero cresciute ulteriormente le lotte, ma si sarebbe anche radicalizzò lo scontro fra fascisti e movimento operaio, annunciato nell’aprile del 1919 dalla distruzione della sede milanese dell’Avanti!, il quotidiano del Partito socialista.

In conclusione, Bianchi invita a mantenere aperta – e internazionale – la lettura del 1919 italiano («una storia che in buona parte resta da scrivere»), senza schiacciarlo sulle «ombre nere» degli esiti successivi: quando una violenza organizzata e assassina, finanziata e istigata dalle classi dominanti e tollerata quando non appoggiata dallo Stato, avrebbe distrutto le organizzazioni di classe, incapaci di resistere.