Una storia d’amore. Lei e lui si incontrano per caso, una festa come tante altre, bordo piscina, eleganza, chiacchiericcio, ambizioni, imperativi – «apparire», «essere qualcuno» – che ondeggiano in aria come il ghiaccio nei bicchieri dei cocktail. «Non sapevo perché sono venuto a questa festa poi ti ho visto e mi sono detto: ecco perché» dice lui a lei, ragazza biondissima col visetto da bambina. BV è un musicista, Faye una cantautrice con addosso la frenesia di fare parte di quel mondo, di essere nello spettacolo, di diventare famosa, di salire sul palco come le star davanti a migliaia di persone che ballano al ritmo della loro musica. Cook è un produttore discografico, lusso, soldi, l’arroganza di chi ha potere. Lui e Faye hanno avuto una storia mai finita, la ragazza non lo dice al nuovo amore passione pulita, gioiosa, quasi adolescente contro le ossessioni morbose dell’altro.

 

 

 

I tre volano  in Messico, i due uomini un po’ si sfidano, un po’ si provocano, un po’ si piacciono, lei in mezzo paura e eccitazione, il sottile gioco delle mani che si sfiorano in segreto, del sesso che cambia secondo l’amore.

 

 

 

Song to Song è il nuovo film di Malick, una ballata sull’amore e un racconto «morale» in cui le acrobazie, il dolore, le ferite dei protagonisti nello scontro con la vita si palesano lungo il filo teso dei desideri. Che non sempre, quasi mai, si accordano con una felicità, che non sempre quasi mai seguono un andamento lineare, che sempre sfuggono alla razionalià come puledri imbizzarriti.

 

 

Ed è la storia di una caduta e di una resurrezione, anche se la spiritualità come sermone dei precedenti film assume la forma epica, mescolata al paesaggio americano, del «ritorno» – come ritornano molte immagini e triangolazioni dei personaggi. Forse perché la morale, pensiero e guida, è affidata a una meravigliosa Patti Smith (e di musicisti ve ne sono moltissimi, da Iggy Pop ai Black Lips), presenza poetica di saggezza e di vissuto. «Hai solo commesso un errore» dice alla ragazza che si dispera dopo aver perduto il suo amore, incapace di abbandonare il suo «lato oscuro» dove nel tempo l’opportunismo si è trasformato in attrazione e complicità nel massacro emozionale con l’amante.

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Siamo a Austin, Texas, metropoli effervescente di musica e di creatività, di artisti, energie e disincanti. BV (Ryan Gosling) è il ragazzo fuggito dal padre, da una madre troppo innamorata, dalla provincia americana sempre uguale per cercare il successo.

 

 

 

Faye (leggiadra Rooney Mara) si è lasciata trasportare dal flusso in onde mutevoli come le parrucche, fucsia, platino, che cambia spesso. Cook il «cattivo« di Fassbender gioca con le vite degli altri può decretarne il successo o il fallimento e la disperazione, fa male anche quando li ama. L’amore come potere, l’amore come irrequietezza, paura del vuoto, della noia, dell’abitudine.

 

 

La Austin di Malick è molto diversa dalla Los Angeles «La la Land», eppure i due film si somigliano (sinergia dell’immaginario?), anzi del film di Chazelle quello di Malick appare come lo specchio rovesciato di Alice e non solo perché il protagonista, BV, che vuole suonare la sua musica senza compromessi è Ryan Gosling, o lui e Faye vogliono diventare qualcuno. Se lì alla fine ognuno trovava il proprio sogno, perdendo l’amore, i sogni qui svelano la loro crudeltà nel ritorno alle origini, al punto di partenza, lavoro operaio e orizzonte steinbeckiano come nuova consapevolezza di sé. «Non avevo il cuore giusto» dice BV.

 

 

Malick continua nella sua ricerca di una narrazione della visionarietà costruita sulle immagini, sul flusso dei movimenti, la luce, i corpi dei personaggi. Come produrre un racconto che non assecondi le «leggi» dello script, come trasformare in sostanza visiva il discorso amoroso senza banalizzarne i chiaroscuri ( che è anche una grande scommessa politica)?

 

 

Più conciliante di altri – forse anche più libero dall’ansia di «imposizioni» filosofiche – con la voce fuori campo del personaggio di Rooney Mara come una guida nei labirinti delle storie – lascia ancora una volta affiorare la sostanza del sentimento in frammenti e detour non prevedibili da una canzone all’altra. «Volevo sperimentare, volevo vivere, volevo cantare una canzone» dice Faye. La vita si srotola nelle loro corse, nella loro «presenza», dietro ai vetri di design, nel sesso comprato e nell’allegria di quello amato.

 

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Mostrare l’invisibile, il non detto, ciò che si cela nel profondo, l’uomo, la donna, le capriole di un desiderio che divora («Each man kills things he loves»). Una tensione di regia che Malick accorda e scompone seguendo un ritmo personalissimo, nel dialogo coi suoi attori – personaggi ma soprattutto segni dell’immaginario come la regale Cate Blanchett, la «stella cadente« Natalie Portman – immersi nella realtà, in quel pezzo d’America filmato a distanza ravvicinata. Lo stridore tra noi e il mondo, la sua sfida, la sua impossibile bellezza.