C’è una città intitolata a Giovanni Battista Belzoni ma non si trova in Italia e neppure in Egitto, dove l’esploratore nato a Padova nel 1778 realizzò straordinarie imprese, bensì nello stato del Mississippi. Belzoni city, adagiata sulla riva del fiume Yazoo, venne fondata nella prima metà dell’Ottocento dal mercante e filantropo Alvarez Fisk, affascinato dal mito del «gigante» cresciuto tra i barcaroli del Portello. Nemo propheta in patria. Ci ha provato persino un romanzo grafico di Sergio Bonelli Editore uscito nel 2013 (Il Grande Belzoni, sceneggiatura e disegni di Walter Venturi) a restituire a questo magnetico pioniere dell’archeologia, la cui figura ispirò George Lucas per la saga di Indiana Jones, la fama che meriterebbe anche fra i non addetti ai lavori. Infatti, seppur effettuate da assoluto profano – Belzoni era figlio di un barbiere e aveva studiato idraulica a Roma – le sue scoperte permisero di conoscere alcune tra le meraviglie della civiltà dei faraoni, a quel tempo appena «sfiorate» dalla spedizione napoleonica e oggi universalmente ammirate.
A duecento anni dal trionfale ritorno del viaggiatore nella città d’origine una mostra ne celebra le gesta. Riaperta dopo l’emergenza sanitaria, L’Egitto di Belzoni. Un gigante nella terra delle piramidi sarà visitabile fino al 28 giugno presso il Centro Culturale Altinate San Gaetano di Padova. A cura di Francesca Veronese e Claudia Gambino, l’esposizione riunisce 150 opere, fra cui oggetti provenienti da collezioni legate allo stesso Belzoni nonché a personalità quali Bernardino Drovetti e Henry Salt, che il protagonista della rassegna incrociò nell’alba rifulgente dell’egittologia. Il progetto creativo e architettonico è firmato dal Gruppo Icat che ha scommesso su un allestimento emozionale supportato dalle tecnologie digitali. Tuttavia, l’apparato scenografico sembra volersi affermare sul racconto vero e proprio, trascurando quei dettagli archeologici atti a provocare nel visitatore la scossa «reale» dell’avventura. È questo il caso della ricostruzione, in scala 1:15, della piramide di Chefren, una tra le maggiori dell’area di Giza, in cui Belzoni riuscì a introdursi il 2 marzo del 1818 dopo averne scovato per primo l’accesso. Posta alla fine del percorso, la piramide si rivela un freddo artificio, laddove la simulazione dell’interno del monumento con la firma che l’ingegnoso scopritore incise nella parete della camera funeraria avrebbe potuto costituire il più coinvolgente degli effetti.
Una critica inerente all’uso del digitale come puro intrattenimento deve inoltre essere mossa a proposito dell’animazione della litografia – pubblicata a corredo del Narrative, l’«opera omnia» di Belzoni apparsa nel 1820 – che descrive il prodigioso trasporto su tronchi di palma del colossale busto detto del Giovane Memnone, in realtà Ramses II, dal Ramesseum di Tebe fino alle sponde del Nilo. Al video, accattivante ma creato con una tecnica piuttosto modesta, non segue una contestualizzazione storica della scultura (manca addirittura la foto) ricavata da un unico blocco di granito bicromatico, che campeggia nella quarta sala del British Museum. Eppure si tratta di un pezzo superbo, di importanza fondamentale nell’ambito dell’arte della XIX dinastia.
Nondimeno, la rassegna consente di ripercorrere i tre viaggi compiuti da Belzoni lungo il Nilo tra il 1816 e il 1818 anche attraverso i disegni (in prestito dal Museo Archeologico Nazionale di Firenze) del medico senese Alessandro Ricci, che aveva seguito il padovano nelle sue peripezie. Dal Bristol Museum & Art Gallery arrivano sei dei trecento fra acquerelli e disegni che riproducono la decorazione della tomba di Sethi I. Belzoni, che era entrato nel fastoso sepolcro nel 1917 secondo solo ai tombaroli, aveva copiato i rilievi con l’aiuto di Ricci nell’intento di presentarli al pubblico con una mostra, svoltasi all’Egyptian Hall di Piccadilly nel 1821 e successivamente a Parigi.
A rievocare al San Gaetano l’avventura di Abu Simbel è invece la sfinge in arenaria a testa di falco (1279-1213 a.C.) conservata al British Museum, che Belzoni rinvenne all’interno del tempio maggiore, dopo essere riuscito a penetrarvi il 1° agosto 1817, sebbene il monumento fosse già stato individuato dallo svizzero John Lewis Burckhardt nel 1813.

All’esposizione è associato un catalogo edito da Biblos (pp. 328, euro 30,00) e curato da Francesca Veronese, che ospita i contributi di apprezzati egittologi di ambito internazionale. Ampio spazio è dedicato anche a Sarah Belzoni, moglie dell’esploratore alto due metri e dieci e dagli occhi cerulei, figura altrettanto seducente, che prese parte alle ricerche in Egitto e gestì, da vedova, la vendita di alcuni celebri reperti – tra cui la presunta mummia dello scriba Butehamon – ai Musées Royaux d’Art et Histoire di Bruxelles. Il volume comprende infine vari interventi di Marco Zatterin, già autore di una biografia di Belzoni dal titolo Il Gigante del Nilo, recentemente ristampata da Mondadori. Il giornalista e collezionista ambisce a infrangere la damnatio memoriae, liberando il personaggio dalle accuse di predatore e rivendicando quell’umanità – accompagnata da intuito e abnegazione – che, a dispetto dei numerosi nemici, caratterizzò la sua incredibile parabola. Fino al tramonto sotto a un albero di Gwato nel cammino verso la leggendaria Timbuctu. Fu infatti in quella zolla di terra dell’attuale Nigeria che Belzoni si spense a quarantacinque anni, ufficialmente a causa di una malattia tropicale.
Nella sua appassionata «arringa», Zatterin tiene a ricordare che all’illustre padovano trapiantato a Londra spetta anche il merito di aver identificato, oltre al sito greco-romano di Berenice, la Valle delle mummie nell’Oasi di Bahariya. Di quest’ultima scoperta, a metà degli anni novanta del secolo scorso si impadronì, coscientemente o meno, la discussa star dell’egittologia Zaki Hawass. Un colpo di teatro non degno delle prodezze con cui il giovane Belzoni – nei panni di Sansone Patagonico – incantava gli spettatori del Sadler’s Wells e dell’intera Europa.