Le mani, le parole, quella lettera «j» che rimanda a se stesse ma anche a qualcosa d’indefinito e straniero che apre al mondo. E l’ossessivo «you», disegnato e ripetuto in frasi circolari che sinuose si srotolano e riavvolgono, un «tu» impresso sulla pelle come fosse un cortocircuitodella comunicazione attivato a sorpresa. Poi, appare la strada, luogo che viene interpretato come un continuo bivio, che si sdoppia in binomi esistenziali intorno ai quali l’artista Ketty La Rocca costruisce i suoi percorsi, sempre a partire da sé. La segnaletica urbana, per lei, era spesso una iconografia verbo-visiva, una proposta di senso invertito, un’esplorazione inedita che supera le lusinghe del pop per approdare in ambiti concettuali. O meglio ancora, alla poesia.

A OTTANT’ANNI DALLA NASCITA e a poco più di quaranta dalla sua scomparsa prematura (morì a soli 38 anni, nel 1976), la XVII Biennale Donna di Ferrara dedica a Ketty La Rocca un’importante retrospettiva (occasione rara per questa artista che, in genere, troviamo con qualche opera in collettive e difficilmente in solitaria), visitabile fino al prossimo 3 giugno, presso il Padiglione di arte contemporanea.
La mostra Gesture, speech and word, a cura di Francesca Gallo e Raffaella Perna (a loro si deve anche il volume collettaneo sulla sua opera, edito da Postmedia e uscito nel 2015), realizzata in collaborazione con l’Archivio Ketty La Rocca fondato dal figlio Michelangelo Vasta e organizzata dal Comitato Biennale Donna dell’Udi, prende l’avvio da una profonda rigenerazione della parola – e dunque del messaggio che veicola – scartando dall’immediata comprensione, preferendo il contatto fisico, la punteggiatura e le «fotografie orfane». Alcuni collage, come rebus, ironizzano sugli stereotipi televisivi e sui cliché dei rotocalchi dell’epoca rispetto alla figura femminile, per poi proseguire nelle surreali e spaesanti indicazioni stradali, fino allo «scioglimento» delle fotografie tradizionali in volute di scrittura meticolosa che, a loro volta, svaniscono in segni astratti. L’itinerario verso il non sense e la fuoriuscita dalla realtà quotidiana a favore di una soggettività non più anonima, è liberatorio. «Sul finire degli anni Sessanta, il linguaggio verbale si trova prosciugato di significato e soppiantato da un personale linguaggio del corpo, che conquista rapidamente il centro della riflessione», scrive la curatrice Francesca Gallo.

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KETTY LA ROCCA è stata una maestra delle metamorfosi, il suo può considerarsi un lavoro fenomenologico: quando si impegnava intorno alla calligrafia, «spogliava» le lettere fino a ridurle in linee grafiche ripassate col nero; se invece si serviva di lastre radiografiche (la serie della Craniologia del 1973) traduceva lo scheletro in un alfabeto mimico, dinamico, potenzialmente infinito. Il ricorso all’autobiografia, per l’artista di La Spezia, è anche una rivendicazione e uno spostamento di sguardi che fanno slittare il corpo della donna in una prospettiva politica e pubblica, ponendo molti interrogativi.
Nel videotape Appendice per una supplica (1972, realizzato con le attrezzature tecniche di Gerry Schum, nel suo camper, a Venezia), il ricorso al lessico «domestico» per eccellenza – le mani – produce una narrazione in controcanto che racconta, in una manciata di semplicissimi (banali) gesti, l’oppressione maschile maturata in secoli di abitudini e posture.

CE N’È UN ALTRO DI FILMATO in rassegna a Ferrara ed è Verbigerazione: uscito dall’archivio della Quadriennale, documenta l’azione spiazzante della lettura stentata di un brano privo di contenuti da parte di Giordano Falzoni. Quasi lo balbetta quel testo, se non fosse per il puntellamento solidale dell’artista (che, peraltro, era stata anche insegnante nella sua vita).
Ketty La Rocca – la cui produzione artistica spazia dalla verbovisualità alla performance fino ai video e alla fotografia, si è manifestata in quindici intensi anni fin dagli esordi col Gruppo 70 -, è stata una pioniera e sperimentatrice coraggiosa, che forse non ha ancora trovato il suo giusto posto nella storia dell’arte del secondo Novecento italiano. La sua ricerca ha scontato – da noi – un ingiusto oblio. Eppure, quel modo peculiare di entrare nella «società di massa» perscardinare la comunicazione ne ha fatto un’inventrice di «nuovi alfabeti», intrisi di dialoghi muti, smorfie facciali, ripetizioni seriali di parole, finestre emotive che tracciano storie di relazioni possibili e che si spalancano su un corpo anestetizzato o, peggio ancora, erotizzato senza complicità né consenso.