«Torniamo in piazza», è lo slogan con cui i giovani rivoluzionari hanno chiamato a nuove manifestazioni contro la repressione in corso in Egitto. Verranno ascoltati? Una cosa è certa, l’Egitto oggi è un paese ancora più insicuro di una volta. È bastato che l’ex generale lasciasse per due giorni il territorio nazionale per volare a Londra, dove è stato accolto da diffuse contestazioni, che al suo rientro ha trovato un paese di nuovo piombato nel caos e nel panico.

Dal 23 agosto al 31 ottobre scorsi due aerei, che trasportavano turisti nel Sinai, hanno rischiato di essere abbattuti per cause diverse. Il primo è il volo della compagnia inglese Thomson, decollato da Londra Stansted per Sharm con 189 passeggeri a bordo. Secondo la stampa inglese, avrebbe evitato per pochi secondi l’impatto con un missile, tipo Stinger o Strela, che potrebbe arrivare fino a un’altitudine di 4.000 metri (e non di 9.500 dove si trovava il volo russo).

Fonti egiziane hanno subito ammesso che in quel caso si sarebbe trattato di un errore, avvenuto durante un’esercitazione militare. Ma ben più grave è lo schianto, 23 minuti dopo il decollo, dell’Airbus 321 della russa Metrojet, costato la vita a 224 persone, e rivendicato da Isis. Il capo del team di esperti internazionali che sta indagando sulla strage, Ayman al-Muqaddam, ha ammesso la veridicità di alcune rivelazioni stampa, circolate nei giorni scorsi.

«Il velivolo è esploso in volo», come confermato anche dal ministro dell’Aviazione egiziana in una conferenza stampa, ed effettivamente si sente un boato, «brutale e improvviso», nelle registrazioni di una delle due scatole nere recuperate. Circostanza confermata dalla vasta area, oltre 40 km quadrati, nella quale sono state recuperate le lamiere dell’Airbus, i cui resti vanno dall’interno verso l’esterno, come avviene in caso di esplosione.

Eppure le autorità egiziane continuano ad arrampicarsi sugli specchi. Da una parte, il ministro degli Esteri, Sameh Shokry, ha messo le mani avanti accusando le Intelligence europee e statunitensi di non avere condiviso le informazioni a loro disposizione con le autorità egiziane (giustificazioni che fanno eco alle dichiarazioni di Putin di qualche giorno fa). «Ci aspettavamo che queste informazioni ci venissero fornite dai tecnici e non dai media», ha ammesso Shoukry.

Dall’altra, è stata avanzata l’improbabile ipotesi che ad esplodere nella stiva sia stata una bombola da sub, tra le 50 che, come di routine per le escursioni nel Mar Rosso, viaggiavano sul velivolo. Sono state le Intelligence di Washington e Londra in primis, da alcuni accusate di avere da tempo indirettamente finanziato i jihadisti di Isis, ad aver accreditato l’ipotesi attentato, ben prima che i Servizi russi prendessero la decisione di bloccare i voli verso l’Egitto, arrivata solo venerdì.

L’esercito egiziano ora controlla l’aeroporto di Sharm e ha imposto strettissime misure di sicurezza. Sono 80mila i turisti russi che stanno lasciando il paese con un ponte aereo senza precedenti di 93 voli.

Alcuni si sono rifiutati di lasciare Sharm con il solo bagaglio a mano, misura imposta per motivi di sicurezza. Anche alcune centinaia di turisti italiani in attesa di rientrare a Milano con la compagnia Easyjet stanno tornano in queste ore.

Le principali compagnie aeree europee hanno sospeso i voli verso il Sinai, dopo le prime rivelazioni di Intelligence sulle cause della strage. Molti credono che l’eventuale attentato avesse come obiettivo gli interessi russi, contro i raid anti-Isis in Siria. In realtà, se questa pista venisse confermata, il terrorismo avrebbe colpito prima tutto l’asse di ferro tra Russia ed Egitto, instauratosi dopo il 2013. E poi chiarirebbe la fallimentare gestione del paese da parte dei militari, responsabili solo pochi mesi fa, di aver attaccato un bus di inermi turisti messicani nel deserto di Bahereia.