Il poeta cileno Raúl Zurita – che sarà al Cervantes di Roma il 27 marzo per poi concedersi in un tour tutto veneto con tappe a Treviso, Venezia e al festival Poetry Vicenza (8 aprile), leggendo testi dal suo libro  Deserti d’amore (a cura di Marco Fazzini & Lello Voce, per Squilibri) – è alle prese con un compito arduo. Sta traducendo la Divina Commedia, un’opera che sua nonna Josefina Pessolo («Veli») gli recitava a memoria quando era bambino e che negli anni ha indicato i temi fondamentali della sua produzione letteraria: redenzione, passaggio spirituale e sofferenza umana.
L’opera di Zurita (nato a Santiago del Cile nel 1950, da madre italiana) è fortemente segnata dalla dittatura militare instaurata dopo il golpe dell’11 settembre 1973. Militante comunista, fu arrestato, torturato e detenuto a lungo. Quando nel 1979 emerse il lavoro del Colectivo de Acciones de Arte, che ideava strategie per fare arte e allo stesso tempo prendersi gioco della censura e dei meccanismi della repressione, Zurita fu da subito uno degli esponenti più radicali del gruppo. Mise in pratica varie performance in cui, martoriando se stesso, metaforizzava le sorti di quanti subivano le ingiustizie di quel potere; così, l’ammoniaca o il ferro bollente che usò sul suo corpo non erano altro che gli echi funesti delle torture subite da moltissimi sotto Pinochet.
Tra il 1979 e il 1994 scrisse la trilogia Purgatorio (1979), Anteparaíso (1982) e La Vida Nueva (1994), dove attraversò i paesaggi più diversi: montagne, spiagge, fiumi, deserti, ma anche Dante e l’Iliade. Storiche rimangono le sue performance poetico-visuali: quella d’un poema composto di quindici frasi in spagnolo di otto chilometri di ampiezza, tracciate nei cieli di New York grazie a cinque aerei che le scrivevano col fumo per sensibilizzare gli spettatori nei confronti delle minoranze del mondo; o, nel 1993, l’azione di tracciare nel deserto del Cile il versetto Né pietà, né paura, così che lo si potesse leggere dal cielo. Già pluripremiato, dopo Poemas militantes e Sobre el amor y el sufrimiento, Los Poemas Muertos e il volume Las ciudades de agua, nel 2008 iniziò a pubblicare parti d’una voluminosa opera, Zurita, con la quale ha chiuso, nel 2012, il ciclo del Purgatorio. La sua poesia Canto a su amor desaparecido accompagna oggi il Memoriale de los Detenidos Desaparecidos de Chile, a Montevideo, in Uruguay. «Come artista – dice – non puoi cominciare a porti dei limiti. Ci saranno già gli altri a porteli e vedrai con che entusiasmo lo faranno. Nessuno scrive poesia solo; si scrive con la totalità della storia e se la scrittura di una poesia è un atto intimo, lo è perché non c’è niente di più collettivo dell’intimità. Lì si incrocia tutto: i sogni della notte precedente, ricordi, letture, discussioni, sconfitte, esilii, speranze».

Può provare a raccontare cosa ha significato vivere sotto una delle dittature più spietate del Novecento?
Vivo in un paese che non ha restituito i cadaveri; nessuno ha restituito alla sposa il corpo del suo sposo, al bambino piccolo il corpo di suo padre, all’anziano il cadavere di suo figlio, e fu la grande poesia cilena, erede di Pablo Neruda, Pablo de Rokha, di Gabriela Mistral, di Vicente Huidobro, di Violeta Parra, di Victor Jara, che, attraversando quegli anni terribili, dovette discendere all’asperità della terra, al deserto, alla bocca dei vulcani, alle schiume del mare che accolsero quei resti, per agire nel nome di un popolo che non poteva farlo, con le esequie degli assenti, punire le loro vite e seppellire nelle tombe del linguaggio ciò che i vivi dovevano aver sepolto nelle tombe dei morti.  Non ci sono limiti all’orrore umano, non esistono parole per descrivere l’orrore assoluto, per far comprendere l’istante esatto in cui un corpo torturato fino a un momento prima, diventa il corpo di un desaparecido, non abbiamo concetti per immaginare che domande, che ricordi sono quelli che assalgono un uomo in quell’estremo mostruoso in cui sta morendo. Non esistono quelle parole, né mai esisteranno e per questa stessa ragione, per il fatto di non esistere, nostro dovere è gridarle con forza ancora maggiore. Perché il fatto è che non si uccide un essere umano una sola volta, lo si uccide infinite volte, lo si continua a uccidere mille volte e mille ancora in ogni luogo della terra. Questo è ciò che implica far parte dell’umanità. Ogni assassinio è un genocidio e se possiamo parlare di diritti umani è perché uno dei fatti più chiari dell’essere vivi è che le conseguenze delle azioni individuali non scappano mai dalla loro dimensione collettiva e che le azioni collettive hanno sempre una soluzione individuale.

Una parte cospicua dell’impatto emotivo provocato dai suoi versi viene dagli improvvisi cambi di registro: si passa dal salmo, alla maledizione, dal sublime alla mimesi del parlato, fino al suo grado più greve…
Lavoro con la mia vita e non perché creda che la mia vita abbia qualcosa di speciale, al contrario, ma perché credo che se siamo capaci di arrivare al fondo di noi stessi senza autocompassione, né falsa solidarietà, è possibile che stiamo toccando il fondo dell’umanità intera. Credo che tutto quel che posso aver fatto sta lì, in quei tentativi. Ho scritto da un corpo che si piega, che si irrigidisce per gli effetti del Parkinson, che trema, che va avanti e cade e ho trovato bella la mia malattia, ho sentito che i miei tremolii sono belli, che la mia difficoltà nel sorreggere questi fogli che leggo ora è bella.
Nel rovescio ferito di questo mondo ho scritto su questo corpo, sui dolori che io stesso ho causato ad altri e quelli che io mi sono inflitto, ho registrato le mie poesie sulla pelle. Solo i malati, i deboli, i feriti sono capaci di creare capolavori. Sento di aver scritto da una certa irreparabile disperazione e, allo stesso tempo, da un’incontenibile allegria. Un’allegria strana, perché è come se nascessi dalla difficoltà di essere felici. Dall’incontro con questi fantasmi nasce la mia scrittura. La scrittura è come la cenere che resta di un corpo bruciato. Per scrivere bisogna bruciarsi per intero, consumarsi finché non resti né il frammento di un muscolo, né di ossa, né di carne. È un sacrificio assoluto e allo stesso tempo è la sospensione della morte. È qualcosa di concreto; quando si scrive si sospende la vita e perciò si sospende anche la morte. Scrivo perché è il mio esercizio privato di resurrezione.

Si ha la sensazione, davanti ai suoi versi, di assistere a un continuo cortocircuito tra disperazione e resistenza: da una parte ci sta l’irrimediabilmente perduto, dall’altra la presenza di un qualcosa che si ostina a vivere. Ritiene che l’azione del porre la parola sulla carta possa essere una forma di resistenza?
È quello che ho cercato di fare con tutta la mia paura e il mio amore. Nel cuore della notte feroce del Cile ho immaginato libri interminabili che si cancellavano all’alba, ho scritto nella mia mente poesie allucinate dove il Pacifico galleggia sospeso sulle cime delle Ande e il deserto di Atacama si eleva come un uccello sull’orizzonte.
Immaginare poesie scritte nel cielo o tracciate nel deserto è stato il mio modo intimo di resistere, di non impazzire, di non rassegnarmi. Ho sentito che di fronte al dolore e al danno bisognava rispondere con un’arte e una poesia che fossero più forti del dolore e del danno che ci stavano causando. Non si trattava di lanciare bordate di piccole poesie da combattimento, ma di qualcosa di assai più rasente, più luminoso, più sordo e violento, e per questo bisogna imparare a parlare di nuovo, cominciare da ogni lettera, perché nessuno dei linguaggi che esistevano prima bastava a restituire l’enormità di quel che era successo e continuava a succedere. Sento che gli sgombri di quegli anni sono lì, in quei tentativi e che, dettati da un desiderio che ci sorpassa, le poesie non sono altro che i sogni che sogna la Terra, i sogni con cui cerca di lavarsi dalla sofferenza umana e che uno non può niente di fronte a questo, se non lasciare delle piccole impronte, dei minimi ritagli che forse sopravviveranno al risveglio.

Lei legge e lavora su Dante da una vita. Può sintetizzare il suo rapporto con l’opera dell’Alighieri?
Mia nonna, emigrante dall’Italia, che morì sconfitta dalla nostalgia di un paese che mai poté rivedere, mi leggeva pezzi della Divina Commedia molto prima che io potessi capirla. Ma siamo chiari, sono solo una bestiolina sentimentale sudamericana e non pretenderò di insegnare io agli italiani la Divina Commedia. Per me è sempre stata il più grande, sublime e lacerante poema della solitudine. Quel che mi commuove, che qualcuno si inventasse la più grande delle attraversate, niente meno che un’attraversata dell’Inferno, il purgatorio e il Paradiso per ascoltare il suo amore dire le cose che in vita non gli disse mai e ascoltargliele dire come se non fosse lui stesso a dirsele. Dante si innamorò di Beatrice. Di qualcuno con cui aveva solo incrociato degli sguardi.
Quando lei muore, lui può comprendere, in qualche parte di lui, l’amore che muore. Ogni essere umano sperimenta la cosa più vicina alla propria morte quando un essere da lui adorato scompare. Questo incrocio di sguardi è la base della Divina Commedia; il resto è speculazione, è equivoco, è critica letteraria. Tutti alziamo qualcosa di simile al poema dantesco quando ci guardiamo l’un l’altro. Tutti attraversiamo l’Inferno e il Purgatorio quando l’altro muore. Tutti torniamo al paradiso quando immaginiamo che quest’altro è tornato per parlare con noi, per dirci ciò che sempre abbiamo voluto sentire e che mai ci fu detto.