In un quadro di scarsa rilevanza economica e politica, nell’articolata definizione amministrativa che fra Otto e Novecento ha condotto la regione all’odierna fisionomia di governo, l’Umbria – forte di antiche tradizioni culturali – è stata tuttavia favorita, a partire dal XIX secolo, da una galleria fortunata di etichette e formule, in grado di tratteggiarne un’identità coerente, utile soprattutto a unificare la rete eterogenea delle sue città e dei suoi paesi.

All’impervia terra eremitica, quella di Benedetto e del monachesimo nursino, ha fatto così eco l’immagine dannunziana di una landa remota del silenzio, mentre – via Corrado Ricci e grazie a episodi ‘nazionali’, fra cui il centenario di San Francesco del 1926 – andava chiarificandosi l’orizzonte gentile di un paesaggio campestre, popolato soltanto da Madonna Povertà. Persino la propaganda fascista ha agito su quest’immaginario, descrivendo la lontananza anche linguistica di ciascun comune come la risulta inevitabile di un popolo riottoso, culla di condottieri feroci sul modello del Fortebraccio o del Gattamelata (secondo l’indice di un libretto didattico di Maria Luisa Fiumi). A ruota, poi, il cuore rosso, il polmone verde, il laboratorio pacifista promosso dal bel sogno di Aldo Capitini, la terra denuclearizzata, quando aveva specialmente contribuito all’idillio premoderno la ricostruzione caparbia e entusiasta della storia artistica locale, da Cavalcaselle a Raimond Van Marle, dallo Gnoli a Walter Bombe, focalizzata su un mito persistente dei primitivi e rafforzata dalla diga preraffaellita del Vannucci, indiscusso genius loci, burbero e angelico a un tempo.
In uno spazio intellettuale tanto stilizzato, non può stupire l’eco di novità che, a partire dalla fine degli anni settanta, ebbe la serie benemerita delle Ricerche in Umbria, complice l’elegante linea delle pubblicazioni Canova (e l’occasione espositiva del 1989, organizzata in corso d’opera a Spoleto). Questi volumi, infatti, sin dentro alla svolta di millennio, si sono dati a ricucire le vicende figurative del territorio lungo secoli fuori quadro rispetto al canone consolidato degli studi, attirando l’attenzione su fatti di Sei e Settecento e ribaltando perfino il pregiudizio di una distante periferia. Tuttavia, mentre i contributi di nomi fra cui Liliana Barroero, Bruno Toscano e Giovanna Sapori, sono riusciti nell’intento di rinfrescare l’idea di un Barocco locale pasciuto di forti connessioni romane (dall’organo berniniano del duomo di Terni al San Giuseppe Falegname del Maestro di Serrone), con più fatica è andata chiarificandosi la fisionomia di un’Umbria rococò e, in particolare, neoclassica, stentatamente avviata verso la tersa centralità garantita dal puro neomedioevo romantico.

È quindi un’occasione di rilievo quella che, in breve anticipo sul tondo anniversario canoviano, ha portato Perugia a celebrare la figura dell’artista nei suoi contatti, frequenti e continuativi, con la regione; perché questa prospettiva consente di guardare a quanto successo sul corso medio del Tevere in relazione a un panorama più esteso, mettendo in luce protagonisti e casi che aspettano ancora di essere ricuciti all’interno di racconti coerenti, interconnessi.

Anche nell’ambito della letteratura specialistica dedicata allo scultore, l’appuntamento curato da Stefania Petrillo per l’Accademia e la Fondazione Cassa di Risparmio – Al tempo di Canova. Un itinerario umbro (fino all’1 novembre) – ribatte su una linea del tutto aggiornata. Basti pensare a un’altra mostra, di grande impatto, come quella tenutasi a Bologna, negli spazi interrati della Pinacoteca nazionale, poco meno di un anno fa: un percorso che condivideva, coll’evento corrente, il focus necessario sulla scuola cittadina di Belle Arti nei suoi rapporti cordiali col campione del classicismo italiano.

Non a caso, in Emilia, nella prima parte dell’esposizione, reclamavano uno sguardo fresco e sorpreso i calchi donati dall’artista all’istituzione felsinea, in particolare la testa colossale di Papa Clemente XIII Rezzonico e una versione rifinita della Maddalena penitente; similmente, nelle due sedi della rassegna attuale (Palazzo Baldeschi e MUSA), i gessi rivestono un ruolo di primo piano, sottolineando quanti suggerimenti d’acquisto e doni l’artista avesse indirizzato ai colleghi perugini, spedendo in città una copia eletta delle Tre Grazie e favorendo l’arricchimento della gipsoteca accademica con indicazioni sagaci, mediate da una rete fedele di formatori.

Certo, se il curatore di Bologna, Alessio Costarelli, ha potuto giocarsi, quasi un gran finale pirotecnico, l’episodio tonitruante della mostra in Santo Spirito (quella che celebrò il rientro in Emilia dei capolavori sottratti dai francesi, riottenuti nel 1815 durante la missione del maestro a Parigi), il dialogo di Canova con l’Umbria non offre un caso altrettanto iconico. Sono infatti dispersi gli arredi della sala ellittica voluti per il proprio palazzo di famiglia dal conte Giuseppe Baglioni, a partire dal 1806, inclusivi da subito di alcuni capolavori dell’artista in calco (vi arriveranno l’Ebe, il Paride, la Danzatrice e la Venere): il catalogo tuttavia offre un buon approfondimento sul tema di una tanto squisita affermazione di gusto, mentre in percorso si evocano con testimoni di qualità le pitture che completavano l’ambiente, affidate ai pennelli di Vincenzo Camuccini e Gaspare Landi.

In assenza di una prova così raffinata di fortuna municipale (ricerche d’archivio hanno messo in evidenza come Canova avesse fornito al Baglioni perfino alcuni arredi plastici per il suo letto a baldacchino), è allora l’eco degli insegnamenti del maestro fra le stanze delle Belle Arti a farsi vera e propria linea conduttrice del discorso. Complice l’Apoteosi disegnata da Tommaso Minardi nell’anno stesso in cui Antonio veniva nominato membro di merito della scuola (e cioè il 1812), tale tema si dipana nelle sale di Palazzo Baldeschi con chiarezza esplicativa e abbondanza di attestazioni, dimostrando non solo il valore assunto dall’esempio canoviano ma soprattutto quanto nel contesto perugino, sullo sfondo dei transiti effettuati dal maestro a Orvieto, Foligno e Assisi negli anni ottanta e novanta del Settecento, andasse maturando un riorientamento di sensibilità decisivo per lo stesso artista, quello che avrebbe insegnato ad apprezzare la severità classica dei primitivi (continuando ad ammirare la grazia esornativa della statuaria greca).

È proprio col favore del più anziano scultore che Minardi – dopo un riconoscimento di merito ottenuto a Bologna – sarebbe stato insediato nel 1818 a capo dell’istituzione umbra, favorendo nuovi linguaggi forgiati sul modello della vulgata peruginesca; un’«altra linea di bello» che andava riflettendosi in creazioni canoviane come i busti di Laura e di Beatrice ma che già spirava negli schizzi incisivi, eseguiti da questi nell’ottobre 1797 fra la Basilica di San Francesco e Santa Maria degli Angeli, gli occhi rivolti a Giotto, Pietro Lorenzetti e al Vannucci: una Deposizione, una Vergine esanime, un volo zigzagante di Angeli urlanti, a raccontare il futuro prossimo della grande maniera italiana.

Sullo sfondo di studi tanto vigorosi e nel contesto più arioso ricostruito dalla mostra, assumono un valore autentico, d’attestazioni vitali, pure le figurine esangui delineate da Giovanni Sanguinetti e da Silvestro Massari, pittori ben inseriti nel sistema educativo dell’accademia: l’ibrida ieraticità delle loro figure, lo smilzo cinquecentismo delle Sante e delle Virtù descritte da quella generazione si radicano infatti coerentemente in un cursus studiorum e in orientamenti estetici che la terra umbra aveva nutrito nei lustri di poco precedenti.