Soltanto la Bayerische Staatsoper si può permettere oggi di portare sulle scene Parsifal di Wagner rivaleggiando direttamente, in posizione vincente, con il medesimo titolo al momento in scena al festival di Bayreuth. Come per le precedenti opere wagneriane rappresentati a Monaco, l’intero Ring e Tannähuser, Parsifal si reggeva in primo luogo sull’interpretazione di Kirill Petrenko, giunto alla stagione conclusiva alla guida del massimo teatro bavarese. Un Parsifal emozionante, ricco di sfaccettature, umanissimo, senza che mai il cesello apparisse maniera, le dinamiche sempre attente ai segni della partitura.

Una ricerca che non sottrae solennità alle pagine di più ampio respiro o contenuto mistico, dai preludi al rito del Graal del primo atto fino all’incantesimo del Venerdì Santo, e al contempo vivifica i personaggi, grazie a un fraseggio dettagliatissimo. Pierre Audi ambienta la sua regia in spazi cupi privati di ogni simbolo religioso: nessuna croce, una capanna di tronchi anneriti come castello del Graal, per il resto il trionfo di una natura minacciosa e buia, affidata al fantasioso disegno delle luci ( Urs Schoenenbaum) e alle scenografie disegnate da Georg Baselitz. Il tema degli eroi, contorte figure di vinti e martiri onnipresenti nelle opere del pittore tedesco, compare su sfondi e sipari e lo stesso spigoloso tratto disegna anche la foresta di alberi di tela e la torre di Klingsor, pronti ad accartocciarsi su loro stessi al chiudersi d’atto. Ci vengono mostrati i corpi degli coristi (impeccabilmente bravi), nudi, piagati e cadenti, ma sono soltanto delle tute, anche se ci vuole qualche istante a capirlo.

L’effetto grottesco rende straniante il rito del Graal e aggrava di lieve imbarazzo l’affollarsi, invero per nulla seducente, delle fanciulle fiore intorno a Parsifal. René Pape è un Gurnemanz solenne, segnato dal dolore, scolpito come quelle statue lignee che nel museo di stato di Baviera intessono l’itinerario tortuoso di un alternativo Rinascimento tedesco.

Non potrebbe essere più forte il contrasto con l’Amfortas parossisticamente tormentato di Christian Gerhaher, che disegna un senescente eroe sconfitto, facendo tesoro dell’infinità varietà di inflessioni timbriche dell’eccelso liederista. Jonas Kauffman ha trovato da tempo in Parsifal un personaggio ideale per il suo strumento brunito e per il fraseggio di pronunciata intensità. Attento anche alle morbidezze della scrittura wagneriana, sfrutta al meglio le potenzialità di uno strumento non dovizioso come quello di altri colleghi, come la torrenziale Kundry di Nina Stemme, che alterna esplosioni timbratissime in acuto a un canto caldo e malioso. Protervo e graffiante il Klingsor di Wolfgang Koch, che come gli altri utilizza brillantemente il proprio carisma personale per infondere vivacità a una regia opaca. Le idee migliori di Audi si esauriscono nell’impianto capovolto del terzo atto, con la foresta sottosopra e il buio palcoscenico che sprofonda fino all’arrivo salvifico di Parsifal.