Il primo film del Natale 2023 è ambientato negli anni Settanta. A sentire il regista Alexander Payne (assente dagli schermi dal 2017, quando la sua malinconica commedia sci-fi Downsizing venne accolta con molte riserve) la scelta di non collocare il film nel presente è stata dettata dalle circostanze della storia, che si svolge in un collegio per soli studenti maschi, che oggi non esistono più.

In realtà, il viaggio nel passato di The Holdovers – Lezioni di vita – che inizia dal carattere dei titoli di testa del film, e ne domina la texture stilistica, dalla palette di marroni, al ritmo introspettivo e all’uso frequente dello zoom – è una ragione in più per abbandonarsi all’universo particolare che Payne evoca con il consueto mix di dolce e amaro, di comicità e tristezza.

PROFONDAMENTE radicati come sono nel punto di vista dei suoi personaggi – scomodi, arrabbiati, ridicoli, arrivisti, marginalizzati – e in una visione che è allo stesso tempo generosa e disincantata, gli studi dei caratteri di Payne richiedono sempre una full immersion, un viaggio dentro all’umanità. La sospensione del tempo in cui sta la premessa di The Holdovers ha una componente letterale in più.

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Nebraska, l’on the road di Payne dentro il sogno che non c’èPaul Giamatti (che torna a lavorare con il regista dopo il successo condiviso di Sideways – In viaggio con Jack) è Paul Hunham, il professore più scorbutico e meno amato di Barton, un collegio del Massachusetts da cartolina, pieno di tweed, ragazzi belli e benestanti, animati da quella naturale arroganza di classe che rende ancor più detestabile la loro «innocente» cattiveria. L’occhio di vetro e l’odore sgradevole che emana la sua pelle, non importa quanto si lavi, non aiutano la popolarità di Hunham. Come non l’aiuta il disprezzo ostentato con cui tratta gli studenti privilegiati che dimostrano scarso interesse per lo studio della sua materia, storia dell’antichità. Detestato anche dalla facoltà, il professore si trova costretto – per l’ennesima volta – a trascorrere il break natalizio a scuola, per supervisionare gli studenti che, per una ragione o per l’altra, non sono andati a casa per le vacanze.

A SORPRESA, in una delle sequenze più belle del film, insieme a quella quasi picaresca del viaggio che si terrà più avanti, Payne e il suo sceneggiatore David Hemingson (autore della serie tv Kitchen Confidential) riducono a uno il gruppo dei ragazzi bloccati a Barton. È Angus Tully (Dominic Sessa, esordiente, scoperto dal regista tra gli studenti di teatro in uno dei collegi in cui è stato girato The Holdovers) – alto, magro e, dietro ai lunghi riccioli color cenere e al profilo etrusco, angoluto e ombroso come ogni personaggio di Payne che si rispetti. Convinto che sarebbe andato a St. Kitts con la madre, Angus viene lasciato indietro all’ultimo momento e porta in sé un segreto che fa da motore alla seconda parte del film.

INSIEME alla strana coppia, rimane a Barton anche la cuoca Mary Lamb (l’attrice teatrale Da’Vine Joy Randolph, al cinema l’avevamo vista in Dolemite Is My Name, con Eddie Murphy), che ha da poco perso il figlio sul fronte del Vietnam. Disegnata – lo ha notato il critico del «New York Times» Wesley Morris – come la Hattie McDaniels di Via col vento, in mani meno sicure e nel filtro di un occhio meno sensibile di quello di Payne, la cuoca afroamericana sarebbe potuta diventare un accessorio, se non una caricatura sicuramente un cliché.

Invece Mary – il cui devastante dolore esplode in una potente gamma di sfumature diverse, dalla cupezza silenziosa, alla rabbia, al comico, alla tristezza più profonda – è parte fondamentale del collante del film e dell’intelligenza con cui Payne intreccia il passato che fa da sfondo alla storia con il nostro presente. La razza, la guerra, la solitudine, il disappunto della sconfitta personale (potrebbe essere Hunham un’incarnazione del destino della Tracy Flick di Election?), le bugie che si raccontano agli altri e a se stessi… Nonostante i pantaloni di velluto a zampa d’elefante, i giubbotti demodé, le musiche d’epoca, e le scelte stilistiche di Payne che rimandano al cinema americano anni Settanta, poco a poco The Holdovers costruisce l’esperienza di un film sul e del presente, nella vena di grandi umanisti non sentimentali come Leo McCarey. Nelle interviste che ha concesso in questi giorni, Payne ha raccontato che l’idea del film gli è venuta nel 2011, dopo aver visto al festival di Telluride Vacanze in collegio (Merlusse, 1935), di Marcel Pagnol, che ha una premessa simile.

Una carriera tra satira e successi
Di origine greca, nato a Omaha, in Nebraska, dove vive ancora spesso e qualche anno fa ha contribuito a fondare una sala cinematografica indipendente, Alexander Payne ha esordito al lungometraggio con l’affilata satira sull’aborto «La storia di Ruth, donna americana» (1996), un film in grande anticipo sui tempi come lo sarebbe stato quello che rimane uno dei suoi lavori più belli, «Election» (1996). Tra i suoi successi maggiori c’è «Sideways – In viaggio con Jack» (2004), realizzato dopo «A proposito di Schimdt» (2002) con Jack Nicholson e Kathy Bates. Dopo «Nebraska» (2013) in contrastatissimo bianco e nero, con Bruce Dern, un altro successo critico, che lo ha portato in direzione più arty, Payne ha diretto la commedia sci-fi «Downsizing», inciampando nel suo primo vero insuccesso con il budget più alto della sua carriera, settanta milioni di dollari. «The Holdovers» rappresenta un ritorno alla dimensione originale più intima dei suoi film