Nel 1961, nei pressi di Kiev, due uomini sulla trentina, l’uno alto e prestante, l’altro decisamente più esile e con gli occhiali, stanno sull’orlo di un burrone e, in silenzio, guardano in basso. Benché sferzati dallo stesso vento, vedono ciascuno una scena diversa: di fronte al primo, il poeta Evgenij Evtušenko, si materializza una immensa fossa in cui una fabbrica di laterizi ha potuto riversare per un decennio i suoi scarti di sabbia e argilla al fine di riempirla e di cancellarla; l’altro invece, lo scrittore Anatolij Kuznecov, torna col pensiero a quel luogo poco distante dalla casa in cui viveva da bambino, dove nel settembre del 1941 i nazisti avevano fucilato nel giro di due giorni 33.771 ebrei kieviani.
Non ci sono monumenti a Babij Jar. / C’è un dirupo scosceso, come rozza pietra tombale. / E io che tremo», scriverà Evtušenko in una delle sue poesie più note che, come un fulmine a ciel sereno, romperà di lì a breve la cortina di silenzio calata nel dopoguerra su quell’eccidio. Un effetto che Kuznecov, suo compagno di studi all’Istituto di Letteratura di Mosca, salutò con soddisfazione. Proprio lui, infatti, aveva condotto Evtušenko a Babij Jar, dove – scrive Katja Petrowskaja in Forse Esther – «non c’era più nulla da mostrare, ma solo da raccontare».

La bandiera della nonna
Parlare di Babij Jar negli anni Sessanta significava spingersi ben oltre gli striminziti spazi di libertà che il regime sovietico aveva iniziato sporadicamente a concedere agli scrittori dopo il disgelo chruscioviano. La virulenta campagna antisemita lanciata da Stalin nel dopoguerra e la diffidenza nei confronti degli abitanti degli ex territori occupati dai tedeschi, accusati tacitamente di intesa con il nemico, avevano fatto sì che non solo la memoria tragica di quel luogo fosse rimossa: anche la sua stessa presenza fisica doveva essere annullata. Nulla di strano, dunque, nel gesto con con cui i redattori della rivista «Junost’» restituirono «inorriditi» a Kuznecov, nel 1965, il manoscritto del suo «romanzo-documento» Babij Jar. In Italia uscì da Paravia nel 1970 a ridosso della clamorosa fuga dell’autore a Londra, poi venne riedito tale equale da Zambon e ora finalmente Adelphi lo ripropone in una nuova versione tradotta da Emanuela Guercetti, che ne ristabilisce l’integrità ripristinando ben 300 pagine sulle 450 dell’originale russo.

Il testo apparso in Occidente era infatti quello ampiamente rimaneggiato che alla fine «Junost’» aveva acconsento a pubblicare, spietatamente emendato dalla censura sovietica.
Ora, una fruibile sequenza di parentesi, che non intralcia la lettura, permette di verificare la natura dei tagli: a scomparire erano anzitutto le allusioni al malcontento nei confronti dei bolscevichi, che aveva spinto la popolazione ucraina (decimata dalla collettivizzazione degli anni Trenta) ad accogliere con sollievo gli occupanti tedeschi. «…se vi interessa scoprire come un uomo possa arrivare a sognare Hitler, leggete almeno quel che riguarda mio nonno», scrive l’autore, il cui merito principale è per l’appunto di inquadrare uno tra gli avvenimenti più tragici della storia europea nella prospettiva degli «ultimi», ossia di un’umanità poverissima, vittima predestinata delle opposte propagande, ma soprattutto ossessionata dal problema della propria sopravvivenza individuale.

Emblematico, l’episodio in cui la nonna del protagonista, all’arrivo dei nazisti, invece di gettare nella stufa la bandiera rossa che fino ad allora era stata costretta a esporre in occasione delle festività più solenni, preferisce tenerla da parte, perché «non si sa mai … anche i tedeschi hanno bandiere rosse, se ci ordinano di appenderne una, tocca daccapo comprare della stoffa nuova». Buon senso spicciolo e piccole furberie si alternano a vere e proprie atrocità e, in generale, all’accondiscendenza (se non tacita approvazione) con cui gli abitanti di Kiev assistono all’eliminazione dei concittadini di origine ebraica.

Un teatro di esecuzioni
Kuznecov, che all’epoca aveva dodici anni, ci restituisce le schegge impazzite di questa allucinata quotidianità con gli occhi di un ragazzino «affamato e troppo irrequieto» che si improvvisa venditore ambulante e strillone per arrotondare le magre entrate familiari, getta dall’alto di un albero patate a una colonna di prigionieri dell’Armata Rossa, aiuta la madre a bruciare i libri «pericolosi» rimasti sugli scaffali di casa; ma al tempo stesso fruga nell’immondizia per recuperarne altri che non ha ancora letto.
Altrove, la tonalità quasi onirica che domina la parte più squisitamente narrativa si dissolve di fronte alla secchezza dei documenti trascritti e assemblati in eterogenei collage (ordinanze tedesche, ma anche manifesti pubblicitari o la programmazione nei cinema) e alle testimonianze dei pochissimi sopravvissuti di Babyj Jar. Tra questi, Dina Proniševa, marionettista in un teatro ebraico, la quale, fingendosi morta, era riuscita a scampare alle pallottole, a strisciare fuori dalla fossa piena di cadaveri e a mettersi in salvo, sfuggendo anche a chi, per una mucca in più o qualche altra ricompensa, l’avrebbe consegnata volentieri ai tedeschi. Eccezione quasi miracolosa la sua, in una Babyj Jar che si sarebbe trasformata, nei mesi seguenti, in teatro di esecuzioni di massa pressoché quotidiane, inghiottendo come una sorta di buco nero zingari, partigiani comunisti, nazionalisti ucraini, sabotatori veri o presunti, perfino i calciatori della Dinamo Kiev che, in più occasioni, si erano rifiutati di lasciarsi battere dai tedeschi.

Evtušenko falso ebreo
Figura tutt’altro che limpida (pur di fuggire all’estero, acconsentì a diventare un informatore del Kgb, come egli stesso ammise), Kuznecov ebbe tuttavia il coraggio – da non ebreo, figlio di un russo e di un’ucraina – di lasciare che Babij Jar diventasse la malaugurante stella fissa del suo destino, la smentita più radicale a qualsiasi discorso utopico, quasi che le mitragliatrici risuonassero ancora a distanza di anni al suo udito: «Che cosa insegnano i libri? Che bisogna amare gli uomini, dedicare la vita alla lotta per il radioso avvenire. Quali uomini? E, scusate tanto, quale avvenire? Di chi?»

Malgrado la disperazione, il suo libro rispecchia ancora quell’afflato universalista che spinse Evtušenko in Babij Jar a dichiararsi ebreo, pur non essendolo, riprendendo l’intuizione di Marina Cvetaeva per cui, già nel 1924, tutti i poeti erano «giudei», reietti. Questa consapevolezza del fatto che non esistano estranei quando si parla di vittime innocenti, latita invece oggi a Babij Jar, dove c’è non un monumento solo, bensì dieci diversi, ciascuno per ogni «categoria» di fucilati. Vale, dunque, quanto ha scritto Katja Petrowskaja, nata nel 1970 a Kiev da padre ebreo sfuggito alla tragedia: «Dieci memoriali, ma nessun ricordo condiviso, perfino nel commemorare i morti la selezione si autoriproduce».