Il Vaticano allontana Enzo Bianchi dalla comunità monastica di Bose, che egli stesso aveva fondato oltre cinquant’anni fa, con un provvedimento canonico estremo e inedito, perlomeno nella storia recente delle vicende ecclesiali. A Bianchi, infatti, viene ceduto «in comodato d’uso gratuito» l’intero monastero di Cellole, nei pressi di San Gimignano (Si) – che quindi cessa di appartenere alla comunità –, dove dovrà trasferirsi entro il prossimo 16 febbraio insieme ai suoi fedelissimi, con l’assoluto divieto di utilizzare i «nomi di Fraternità monastica di Bose, Monastero di Bose, o simili, nella pubblicistica, nella cartellonistica, nei siti internet».

Visto che Bianchi – spiega in una nota padre Amedeo Cencini, il delegato pontificio che da oltre un anno ha in mano l’affaire Bose – ha rifiutato di allontanarsi dalla comunità di Bose a Magnano nel Biellese e di trasferirsi altrove, come gli imponeva un primo decreto del maggio 2020, ora è la stessa comunità che rinuncia a uno dei propri monasteri (cinque in tutto: Bose, Assisi, Civitella San Paolo, Ostuni e appunto Cellole) e lo cede a Bianchi, purché se ne vada e tagli ogni legame con Bose. Sullo sfondo aleggia lo spettro dello «scisma» su una delle principali esperienze di monachesimo moderno in Italia: se infatti altri monaci e monache seguissero Bianchi nel suo confino toscano, la comunità risulterebbe di fatto spaccata, con un gruppo di «ortodossi» e un altro fedele al fondatore (ipotesi che lo stesso decreto pontificio mette in conto, visto che parla di «alcuni fratelli e sorelle che hanno manifestato la propria disponibilità ad andare con lui»). La storia di Bose comincia nel 1965, in pieno rinnovamento conciliare, quando Enzo Bianchi, 23enne studente di economia a Torino, si trasferisce in una cascina sulle colline di Ivrea per dare vita a un’esperienza ispirata alla tradizione del monachesimo occidentale. Arrivano altri giovani, e nasce una comunità monastica composta da uomini e donne, chierici e laici (lo stesso Bianchi non è prete), cattolici e non cattolici.

Negli anni la comunità cresce e diventa polo di attrazione per molti in ricerca spirituale e punto di riferimento dell’ecumenismo. Bianchi assume un ruolo pubblico, stimato dai pontefici e molto presente sui media. Ma è anche un capo con un forte carisma, tanto che nel 2014 una visita apostolica di un abate belga e una abbadessa francese – peraltro chiesta dallo stesso Bianchi – evidenzia le qualità ecumeniche della comunità, ma raccomanda anche che la guida del monastero sia esercitata in maniera «non autoritaria ma trasparente e sinodale». Si avvia una transizione che sembra concludersi nel 2017, quando Bianchi lascia la direzione a un altro monaco, Luciano Manicardi, abbandonando il ruolo di «priore» ma conservando quello di «fondatore».

L’avvicendamento non funziona. Nel dicembre 2019 parte una visita apostolica (un’ispezione) della Santa sede, affidata a Cencini (insieme a un abate e alla stessa abbadessa del 2014), che a maggio 2020, sotto forma di un «decreto singolare» firmato dal cardinale segretario di Stato Pietro Parolin e approvato da papa Francesco, impone a Bianchi (e due monaci e una monaca) di lasciare la comunità e trasferirsi altrove, a causa – questa l’unica spiegazione fornita – «dell’esercizio dell’autorità del fondatore», che evidentemente avrebbe continuato a fare il «priore-ombra».

Bianchi accetta il provvedimento, ma non obbedisce. Si arriva così alla decisione radicale di ieri. Più che un conflitto tra istituzione e carisma – la prima rappresentata dal Vaticano, il secondo da Bianchi – la questione sembra essere esclusivamente legata alla gestione del potere. E, come spesso capita, al corto circuito che si verifica quando un’istituzione non riesce ad affrontare il passaggio dal fondatore carismatico alla comunità.