Gran consiglio ad Arcore ma naturalmente niente detronizzazione. Qualche lite sì, ma subito conclusa dal successo dell’ala dura del Pdl. Alla fine tutti uniti dietro al Cavaliere, com’erano entrati. Il vertice di guerra tra il condannato pre-recluso ai domiciliari brianzoli e tutti i suoi colonnelli e ministri della Repubblica partorisce un nuovo appello al Pd, a Enrico Letta e a Giorgio Napolitano. Perché impediscano la decadenza da senatore di Silvio Berlusconi. È un grido di disperazione al quale Angelino Alfano deve dare la forma di un ultimatum al governo di cui è vicepremier.
Messo velocemente in minoranza, assieme agli altri ministri e agli esponenti del pensiero debole berlusconiano, l’ancora segretario del Pdl, al termine del lungo pranzo e dopopranzo, non ha evitato l’umiliazione di dover essere lui a fare la voce grossa; lui che si presenta come un «moderato». «La decadenza da senatore di Berlusconi è impensabile e costituzionalmente inaccettabile». È il ministro dell’interno che parla e, a proposito di Costituzione, anche l’autore del famoso «lodo Alfano». Ma dietro di lui c’è la pattuglia dei ministri, gli alti dirigenti tra i quali Capezzone, Bondi, Cicchitto, Matteoli, Gasparri. E naturalmente Verdini e Santanchè che ad Arcore giocano in casa e che da soli sono capaci di pesare quanto tutte le «colombe».

«Rivolgeremo – annuncia Alfano, lasciando intendere che non è finita qui – tutti insieme alle massime istituzioni della Repubblica, al primo ministro Letta e ai partiti che compongono la maggioranza, parole chiare sulla questione democratica che deve essere affrontata per garantire il diritto alla piena rappresentanza politica e istituzionale dei milioni di elettori che hanno scelto Berlusconi». Insomma, hanno vinto i «falchi». Ma la loro vittoria non fa fare un passo in avanti al Cavaliere, che è con la faccia nell’angolo dal 31 luglio scorso, il giorno della condanna definitiva in Cassazione. Può ripetere ad alta voce le sue minacce, sperando però di non essere costretto a metterle in pratica. Perché sa che fuori dalla maggioranza o fuori dal parlamento rischia anche di più.

Può godersi però il partito unito. Prendersi le sue soddisfazioni redarguendo quelli che gli sono stati meno vicini nelle ultime settimane, e comunque sempre Alfano – pare a proposito del ruolo della figlia Marina. Apprezzare pubblicamente il solo Verdini. Ascoltare le lodi e gli elogi di chi proprio non riesce a farne a meno ogni volta che interviene. E poi ricondurre alla fine a sintesi quattro ore di scambi vivaci, e cioè tornare al punto di partenza. Il Pdl mostra tutto il suo volto minaccioso, però si limita a sperare in un rinvio. In una qualsiasi dilazione possibile nella giunta per le elezioni che si riunisce il 9 settembre (ma qualche giorno prima l’ufficio di presidenza potrebbe persino spostare un po’ la data).

Sintonizzato sulla propaganda, il Cavaliere ha sostanzialmente anticipato ai suoi fedelissimi il discorso che intende registrare e mandare a tutte le televisioni, stessa tecnica di vent’anni fa. Non ha evitato nemmeno il passaggio su Magistratura democratica, sulla quale si è messo a studiare. Ha escluso di chiedere la grazia, escluso di andare agli arresti domiciliari, escluso anche l’affidamento ai servizi sociali. E allora cosa? «Continuo a sperare in una soluzione di buonsenso». Buonsenso al momento significa che il Pd non dovrebbe opporsi a mandare la legge Severino davanti alla Corte Costituzionale. Per verificarne l’eventuale incostituzionalità, ufficialmente, in realtà per guadagnare sei-otto mesi in parlamento.

Ma il Pd ha ben chiaro che passare una legge dal senato alla Consulta, una legge poi che il Pdl ha votato come un sol uomo pochi mesi fa, è un azzardo bello grosso, probabilmente impossibile. E al momento concederebbe solo l’audizione di qualche esperto favorevole al Cavaliere. La trattativa è ancora lì, dov’era prima del vertice di Arcore, prima della sfilata del Pdl e prima dell’auto-ultimatum di Alfano.