Sono finiti i canditi per i 10 ospiti del carcere di Cordillera o almeno sono finiti quelli buoni sul serio. Dopo aver fatto per anni orecchie da mercante alle richieste delle associazioni per la difesa dei diritti civili, il presidente cileno, Sebastian Piñera, ha riconosciuto che il penitenziario speciale per gli ex aguzzini della dittatura di Pinochet era un po’ troppo speciale e ha trasferito tutti nella prigione di Punta Peuco, dove li hanno ricevuti altri 46 ex colleghi, che godono di un regime meno permissivo del loro, ma pur sempre privilegiato, se si considerano le condizioni tragiche esistenti nel resto del sistema carcerario nazionale.

Comunque, la decisione è stata considerata un passo avanti ed ha ricevuto il plauso di quasi tutto l’arco politico cileno, oggi impegnato nel rush finale di una campagna presidenziale che culminerà il 17 novembre e che sta portando retoricamente verso il centro tutte le forze in corsa. Tuttavia, un ripudio notevole c’è stato. Si è trattato di quello espresso dall’ex capo della polizia segreta, Odlanier Mena, che ha ricevuto la notizia durante un permesso per il weekend dalla suddetta colonia penale, che stava trascorrendo nella sua elegante residenza di Las Condes, a Santiago. Mena era l’unico dei 10 reclusi di Cordillera a cui si concedeva di uscire per motivi di salute e, ora è noto a tutti, aveva anche il permesso di possedere un’arma da fuoco in quanto collezionista.

Una pistola al petto

Dopo aver visto il telegiornale, l’ex condottiero della Carovana della Morte, ovvero di quel circo sadico che negli anni Settanta fu mobilitato dal regime per rimediare all’inettitudine delle amministrazioni locali nello sterminio degli oppositori politici, si è sentito indignato, si è puntato una pistola al petto e ha tolto l’ultima delle decine di vite che aveva sulla coscienza: la sua. Mentre si consumavano le esequie alla presenza di Lucia Pinochet, figlia del famigerato dittatore, e al canto di stornelli nostalgici in onore al padre, i suoi 9 ex coinquilini, intanto, facevano le valige. Finivano così il footing nei giardinetti di Cordillera, le veglie cameratesche negli chalet bianchi tipo alpino e il look casual dei residenti, che davano al carcere l’aria di una casa di riposo per giovanotti d’altri tempi, protetti e non imprigionati dalla recinzione di pali e filo spinato sul perimetro. A far traboccare il vaso della loro Arcadia, è stata l’innocente idea di organizzare una grigliata di carne in onore di Miguel Krassnoff, un tirolese figlio e nipote di ufficiali nazisti, la cui famiglia trovò rifugio in Cile dopo la Guerra. I 120 anni di carcere che oggi deve scontare per crimini contro i diritti umani, commessi in qualità di brigadiere del servizio segreto golpista (Dina), dimostrano che anche lontano da casa, Miguel è riuscito a tenere vive le tradizioni di famiglia.

Il banchetto, prima annunciato e poi disdetto, sarebbe stato quantomeno imbarazzante per un capo di Stato come Piñera, che circa 3 anni fa strappava gli applausi a una platea di militari messi sotto scacco dalle inchieste sul passato, con la promessa che il suo governo avrebbe garantito «la vera giustizia, rispettando diritti fondamentali (…) come l’applicazione corretta del principio di prescrizione», ma che oggi si arrovella sul come ribaltare i sondaggi in cui la candidata socialdemocratica ed ex presidente, Michelle Bachelet, stravince sulla proposta della destra, Evelyn Matthei.
Per farlo, la strategia sembra essere quella di rompere almeno in apparenza con tutto ciò che è sporco di Pinochet, sperando di allargare il bacino dei consensi e sapendo che ci si può disfare dei casi più gravi, senza smettere di accusare Salvador Allende e il suo governo socialista di aver fratturato l’ordine democratico cileno, precipitando gli eventi che nel ’73 culminarono con il colpo di Stato. Lo ha detto lo stesso Presidente nel discorso di 20 giorni fa, in occasione del 40esimo anniversario.

Quasi contemporaneamente, Manuel Contreras, l’ex capo di quell’intelligence anti-sovversiva, Dina, a cui apparteneva anche Krassnoff, concedeva un’intervista alla Cnn Chile dal carcere di Cordillera e dava, con mezz’ora di botta e risposta, un contributo alla chiusura del penitenziario, più grande di quanto non avesse fatto la sinistra con anni di denunce pubbliche. Fermo da decenni nel suo taglio di capelli da primo della classe dell’Accademia di Guerra, Contreras ha negato che nell’organismo da lui presieduto si sia mai torturato chicchessia, né naturalmente che si ammazzassero i prigionieri e che si facessero sparire i corpi. «I sovversivi venivano arrestati, interrogati e tenuti in stato di fermo al massimo per cinque giorni e poi consegnati al Ministero dell’Interno», ha detto. «E come li interrogavate?», gli ha chiesto la giornalista. «Facendo delle semplici domande e in alcuni casi tentando con l’ipnosi». «Niente reti da materasso collegate all’elettricità?». «Mai viste». «Niente botte, insulti e sodomia con ratti morti?». «Niente». Una versione della storia che non s’incastra tanto bene coi 3 secoli di detenzione che deve scontare Contreras o con le decine di omicidi e torture commessi nelle catacombe della Dina, ma che il generale in congedo spiega con la teoria secondo cui tutti mentono (testimoni, procuratori, storici, politici e giudici) e che lui, invece, dice la verità.

Un patetico club

Una verità, da cui gli deriva per esempio la certezza del fatto che non finirà i suoi giorni in carcere. Nemmeno in uno bello come quello di Cordillera, dove «i Carabineros mi controllano solo dall’esterno della rete». La frase, unita a tutto il resto, ha irritato molti spettatori e così, l’impunità di Contreras sommata all’idea della grigliata per Krasnoff, hanno dato un’opportunità al presidente per compiere un gesto forte: mandare tutti a Punta Peuco. Tuttavia, nemmeno in questo luogo in cui si ricongiungeranno con la vecchia guardia, ormai degenerata in un patetico club dello scaricabarile, finiranno i privilegi degli ex gerarchi.

«Le celle singole, il bagno e la cucina privata con microonde e frigo – nonché – il risotto di zucca nel menù» rilevati in un’informativa giudiziaria della Corte d’Appello e pubblicata giovedì scorso, creano uno sgradevole attrito con le «diverse, costanti e a volte brutali infrazioni commesse da agenti dello Stato nei confronti di chi sta compiendo una condanna» che registra in tutte le altre prigioni del Paese, il Dossier Annuale sui Diritti Umani del 2012. Un testo ufficiale redatto da osservatori accademici, in cui si racconta che il Cile «esibisce i dati di carcerazione più alti del Sudamerica e il tasso di sovrappopolazione supera il 60%».

La situazione, che perdura uguale da anni, è saltata di nuovo agli occhi della cittadinanza meno di due mesi fa, a metà agosto, quando 18 dei 550 detenuti del carcere di Quillota hanno iniziato una protesta per le durissime condizioni di soggiorno che affrontano. Ne è nato un incendio che ha coinvolto gran parte della struttura e 24 persone sono rimaste ferite. Fuori dai cancelli, il governatore della regione di Valparaiso, Raul Celis, ha detto che non si era trattato di una protesta, ma di una rissa. La stessa divergenza di vedute, una protesta in carcere che da fuori sembra una rissa, avvenuta in dicembre del 2010 nel penitenziario di San Miguel, dove però morirono 83 detenuti.

Oggi, il sovraffollamento, la malnutrizione, la mancanza di cure mediche, le difficoltà di accesso al sistema educativo e molto altro, sono problemi che toccano quotidianamente 52 mila 612 reclusi cileni, a cui vanno sottratti però i 55 detenuti di Punta Peuco, paradossalmente responsabili di quelli che in assoluto sono i crimini più gravi.