Le innovazioni più significative introdotte nel campo delle arti visive dalle avanguardie dei tardi anni cinquanta e del decennio successivo riguardano l’impiego di pratiche espressive basate sul tempo (come ad esempio il video, che richiede all’osservatore di spendere una porzione determinata del proprio tempo) e sul luogo (gli interventi ambientali, site-specific e le performance). Fino a quel momento, infatti, la quasi totalità delle opere trovava nella sua immobile fissità uno degli elementi fondanti, contribuendo a delineare il ruolo del destinatario come quello di semplice osservatore contemplativo di un’opera conclusa.

L’evoluzione tecnologia da un lato, la scoperta di una socialità attiva e della presenza fisica dell’artista dall’altro, portarono a un cambiamento del paradigma opera/fruitore: il destinatario veniva stimolato a condividere tempi e spazi, nel tentativo di assottigliare e rendere intangibile il margine tra vita e pratica artistica. E con il desiderio politico, non certo nascosto, di rompere gli argini di convenzioni sociali troppo rigide.

Anni sessanta: performance!

Comincia a lavorare in questo contesto fatto di provocazione e frattura Ulay, cui la Mestna Galerija di Lubiana (è la galleria civica dedicata al contemporaneo del capoluogo sloveno) dedica, fino all’ febbraio, una retrospettiva che mette insieme alcune delle azioni più significative dell’artista tedesco, uno dei protagonisti della performance art. Attraverso video, fotografia, libri d’artista è riassunto un percorso espressivo di oltre trent’anni, una dozzina dei quali trascorsi in sodalizio, anche affettivo, con Marina Abramovich. I other, curata da Alenka Gregorich e Tevž Log, racconta infatti l’opera di Frank Uwe Laysiepen – questo il suo nome di battesimo – a partire dai primi anni settanta, in cui la ricerca è veicolata dal proprio corpo e dal poterne disporre liberamente, al di là della presunta normalità o delle barriere imposte dalle suddivisioni di genere. Il corpo è infatti percepito nella sua poetica come elemento dirompente, politicamente spigoloso quando si sottrae a costrizioni e costruzioni mirate al controllo dell’individuo. Ecco quindi la possibilità di liberarsi, facendo della propria pelle un palinsesto su cui scrivere aforismi esistenziali sulla propria identità, come nella serie Renais sense, o realizzare dei veri e propri collage, quali Pa’Ulay, in cui le due metà del volto sono ricomposte in un’apparente e inconciliabile unità maschile/femminile.

La presenza di elementi perturbanti che fanno riferimento a una sessualità ambigua ed esplorativa caratterizza anche le immagini fotografiche di Dunes, in cui Ulay si traveste e si ritrae con la polaroid in reggicalze, facendo del sé incerto il suo soggetto. «Sono nato in un rifugio antiaereo nel 1943. Sono diventato artista – scrive Ulay in uno dei testi in catalogo – anche per insoddisfazione, non certo per necessità creativa o per necessità di lavorare in maniera estetica o formalista. Ero insoddisfatto di me, della società e della stessa arte, in particolare del tardo modernismo. Non ero sicuro chi fossi e ho cercato di immaginarmi attraverso la fotografia. Scattare immagini, infatti, soddisfaceva l’esigenza di immediatezza espressiva e del risultato. Riguardare i miei autoritratti mi ha fatto capire sin da subito come l’identità sia una piccola barca con un’àncora grande come una petroliera che solca l’oceano. E, inoltre, che in ultima istanza ogni atto artistico, sia esso conscio o subconscio, ha a che fare proprio con l’identità, con lo specchiarsi, al di là che questo sia elemento fondante dell’espressione artistica o semplice soggetto».

Se la ricerca dell’identità è in qualche modo il fil rouge che tiene insieme le opere della mostra, è in particolare la costruzione di situazioni che creano imbarazzo o disagio agli spettatori lo strumento espressivo privilegiato dall’artista, anche nelle azioni realizzate in coppia con Marina Abramovich. Si pensi alla celebre Imponderabilia, realizzata alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna per il festival della performance nel 1977, in cui i visitatori dovevano passare attraverso i corpi nudi degli artisti per poter entrare nel museo, dovendo strisciare il proprio corpo sul pube dell’uno o dell’altra.

Furto alla Nationalgalerie

La ricerca di un dialogo e assieme la denuncia di una sofferta impermeabilità dell’istituzione culturale è alla base anche del blitz che Ulay, in questo caso da solo, realizzò a Berlino nel 1977, quando rubò un quadro custodito presso la Neue Nationgalerie per portarlo nella casa di una povera famiglia di immigrati di origine turca. L’azione, che oggi può apparire retorica, racconta invece il fallimento delle istituzioni, sia nel lavoro di mediazione tra cultura e cittadini (l’unico modo per far vedere un’opera d’arte a una persona che non possiede l’educazione necessaria, suggerisce l’artista, è portare l’opera in casa della persona), ma anche in quelle minime di tutela e protezione, essendosi trattato di un gesto del tutto non-violento.

Oltre a disegni e a fotografie che documentano azioni e opere realizzate assieme ad aborigeni in Australia dai tardi anni settanta ai Novanta, in mostra spiccano i ritratti fotografici in biancoe nero di grandi dimensioni fatti a New York ai senzatetto afroamericani, nonché i taccuini di viaggio e il bellissimo libro d’artista concepiti durante l’ultima performance realizzata con la Abramovich, quando, partendo ciascuno dalle estremità, i due artisti si sono camminati incontro l’un l’altro per poi lasciarsi, come coppia e come artisti. La rottura sanciva così la fine di un sodalizio, e, a metà degli anni ottanta, segnava anche il superamento di quelle istanze libertarie che tanto avevano caratterizzato il decennio precedente, a favore di un lavoro marcatamente meno eroico, quasi intimo. In quell’azione lineare estrema, in maniera secca e senza sbavature, veniva a rompersi infatti il cerchio che molti anni prima avevano percorso centinaia di volte insieme con un furgone, fino all’esaurimento della benzina. A rimanere non erano che le tracce dei pneumatici sul terreno.