La prima cosa è il movimento. Non un movimento esplicito, ma intuibile attraverso la forma e anche l’idea di un qualcosa di itinerante, a cui rimanda l’accezione stessa di circo. Tanto più che si tratta del Circus Calder nell’interpretazione di Ugo Mulas (1928-1973). Un tendone in miniatura che entra in valigia, i cui protagonisti portano con sé il peso delle loro esistenze tra reale e immaginifico, passo dopo passo come sul filo su cui si avventurano gli acrobati. Alexander Calder (1898 – 1976) lo realizza a Parigi a partire dal 1926. Mulas lo fotografa negli Stati Uniti tra il 1963-’64, scattando non più di un paio di rullini. Un lavoro nato unicamente per sé, nel tentativo di approfondire ogni aspetto dell’opera dello scultore, di cui nel 1971 pubblica il libro Calder. Ma in questo noto volume, di cui il fotografo aveva studiato anche l’impaginazione grafica, uscito contemporaneamente a Londra, Parigi e New York, solo una manciata di scatti sono dedicati al Circus. Per la prima volta 36 stampe originali (gelatina ai sali d’argento su carta baritata) vengono esposte nella mostra Ugo Mulas. Circus Calder curata da Valerio Dehò al Kunst Merano (fino al 18 maggio) e concepita come l’incontro di due adulti che non rinunciano a quella parte di sé genuinamente infantile. Alla base dell’amicizia tra i due grandi artisti, infatti, c’è anche questo. Si erano conosciuti a Spoleto nel 1962, quando Giovanni Carandente aveva dato vita a Sculture nella città, invitando autori internazionali a dialogare con lo spazio urbano e affidando proprio a Mulas la memoria fotografica. Erano seguite varie visite nelle case-studio dello scultore americano a Saché (Francia) e Roxbury, Connecticut.

Ugo Mulas. Circus Calder nasce dalla collaborazione con l’Archivio Mulas, la Biblioteca Civica di Merano e Ópla!, archivio del libro d’artista per bambini: non è casuale, infatti, la presenza in mostra di edizioni speciali, tra cui Il prestigiatore verde di Bruno Munari e Luna Luna. Karussell: A poetic extravaganza! di Keith Haring. Ma, diversamente da queste storie coloratissime, il circo Mulas/Calder è austero e rigoroso. «Verrebbe voglia di colorare le fotografie», afferma Melina, figlia del fotografo. Del resto, nell’uso del bianco e nero da parte di questo autore straordinario c’è la consapevolezza dell’artificio, ma anche della natura stessa del linguaggio, più idoneo a stimolare la riflessione. Mulas inquadra la pista da lontano, avvicinandosi sempre di più al soggetto. Ritrae ogni singolo personaggio esattamente come se si trattasse di celebrità, eppure sono solo piccole figure, curatissime nel dettaglio ma fatte con il fil di ferro e altri materiali di recupero (carta, bottoni, tela, spago, gomma…).

«La fotografia rende la dimensione scultorea del Circus», spiega il curatore. Per lo sguardo analitico del fotografo è indifferente che si tratti di esseri umani o animali (ballerina, lanciatore di spade, domatore, sollevatore di pesi, cowboy, trapezista – alcune figure sono ispirati ad amiche come Kiki de Montparnasse e Josephine Baker – e poi cammello, leone, foca…): hanno tutti la stessa dignità. Una parata di personaggi poetici che raccontano di sogni come di illusioni. La tensione emotiva è nella spinta che ha motivato il fotografo a coglierne la natura più profonda, ma anche nell’apparente staticità dei personaggi: figure immobili che, in realtà, erano dotate di meccanismi che le facevano muovere autonomamente, quando non interveniva lo scultore, mentre sua moglie Louisa James si occupava del fonografo.

Anche le foto di due schizzi del circo entrano nel racconto, come la mano adulta di Calder che accoglie nel palmo un piccolo pennuto metallico. Un senso di protezione avvolge lo sguardo, simile – forse – a quella tenerezza che doveva aver provato il grande scultore nel riguardare quel suo primo lavoro che, quarant’anni prima, l’aveva introdotto nel mondo dell’arte.