Un’impotenza complessiva che si sta traducendo in un’insofferenza reciproca generalizzata tra i 28: l’ennesimo Consiglio europeo, il tredicesimo dell’anno, si è concluso senza decisioni. Eppure, sul tavolo c’erano questioni di primo piano, dalla crisi dei rifugiati alla minaccia di Brexit, fino all’Unione bancaria, all’Europa dell’energia, oltre alle questioni geopolitiche, Siria e Libia in testa, ma anche le relazioni con la Russia e il problema del prolungamento delle sanzioni.

Ogni paese ha seri problemi a casa, con la crescita dappertutto di forze populiste e di estrema destra, come hanno messo in luce le ultime elezioni regionali francesi. Le varie patate bollenti sono state passate alla presidenza olandese, che per sei mesi prenderà le redini del Consiglio dopo il Lussemburgo.

Il presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, è estremamente pessimista e non si fa «nessuna illusione» sulla soluzione nel 2016 dei dossier aperti. La Commissione nel 2015 ha fatto varie proposte sui rifugiati, ma tutte sono rimaste lettera morta e ormai è lo spazio Schengen ad essere a rischio, con l’ipotesi sotterranea di creare un «mini-Schengen», senza Italia e Grecia, paesi considerati «colabrodo».

Quasi un milione di persone sono entrate nella Ue nel 2015. Ad ottobre, Bruxelles aveva previsto la ricollocazione di 160mila rifugiati, presenti in Italia e in Grecia. Sei mesi dopo, ne sono stati redistribuiti solo 184.

Numeri inaccettabili» per Matteo Renzi, che ha rimandato al mittente tutte le critiche all’Italia. «L’Italia sta facendo la sua parte, l’Europa no». Secondo Renzi, «il 50% degli hotspot» sono stati aperti, contro uno «0,2% di relocation». Non è lo stesso calcolo che fanno i partner, che vedono solo aperto, per l’Italia, quello di Lampedusa (e uno per la Grecia). I 28 si barricano dietro le richieste alla Commissione, che dovrà «presentare rapidamente» una revisione del diritto d’asilo nella Ue, per chiarire anche i termini del «programma volontario di ammissione a titolo umanitario» (altro fallimento: la Ue nel luglio scorso si era impegnata con l’Onu ad accogliere 22mila rifugiati per una reinstallazione, ma al momento il progetto riguarda solo 600 persone). Ungheria e Slovacchia si sono già tirate fuori dal programma di ricollocazione. A Bruxelles, è stata la volta della Svezia, uno dei paesi più richiesti, ad ottenere un anno bianco, fuori dal programma di accoglienza di rifugiati schedati negli ancora fantomatici hotspot italiani e greci. Angela Merkel ha ancora ripetuto che «non possiamo lasciare Italia e Grecia da sole», ma nei fatti i paesi «di buona volontà» (Germania, Belgio, Austria) sono in difficoltà e scaricano la responsabilità di trovare una soluzione sulla presidenza olandese. Ma il primo ministro olandese, Mark Rutte, avverte: per i resettlement umanitari, tutto è congelato fino a quando i flussi migratori illegali dalla Turchia «non saranno ridotti quasi a zero».

La Ue prevede reinsediamenti per 50-80ila persone al massimo, la Turchia pensa a varie centinaia di migliaia. La Ue ha promesso 3 miliardi alla Turchia. Ma chi paga? I 28 chiedono che la Commissione trovi più dei 500 milioni promessi nel proprio bilancio. E Hollande avverte: «i soldi alla Turchia saranno versati solo se Ankara rispetterà i criteri richiesti» nell’accordo firmato il 29 novembre scorso. Gli europei ritengono che Ankara non blocchi i flussi illegali, che continuano al ritmo di 4mila persone al giorno sulle coste delle isole greche. «Il piano di azione Ue-Turchia è un fallimento», ha riassunto il primo ministro ceco, Bohusha Sobotka. Anche il corpo di guardia-frontiere e guardia-coste Ue, proposto dalla Commissione il 15 dicembre scorso, è rimandato a più tardi, sotto presidenza olandese. «Non rinunciamo a proteggere le frontiere esterne», afferma il presidente del Consiglio Ue, Donald Tusk, ma molti paesi membri sono perplessi sulla decisione di imporre i guardia-frontiera Ue anche senza l’accordo dei paesi interessati. Per la Polonia equivale a «un’occupazione» e la Grecia contesta.

Sulle risposte alla minaccia di Brexit, tutto è rimandato a un vertice a febbraio. Nessuno vuole mettere in difficoltà David Cameron, in vista del referendum sull’appartenenza della Gran Bretagna alla Ue, forse già la prossima primavera. Hollande accetta «aggiustamenti», parla di «compromessi» possibili, sulla competitività, sull’energia, sulla governance, ma resta il blocco sulla libera circolazione e la non-discriminazione dei cittadini Ue (sul welfare), che deve essere rispettata perché è un principio fondatore. Londra potrebbe ottenere degli opt out sull’immigrazione, come la Danimarca nel ’92, senza modifica dei Trattati (Germania e Francia non ne vogliono sentir parlare prima delle elezioni, in entrambi i paesi nel 2017).

Per completare il quadro delle difficoltà, ci sono state tensioni sull’ipotesi di prolungamento automatico, a gennaio, delle sanzioni alla Russia, contestate da alcuni paesi, tra cui Italia. Renzi, con la Bulgaria, ha protestato anche per Southstream, il gasdotto dalla Russia bloccato, mentre Northstream, che porta il gas russo in Germania, prosegue.