Vertice straordinario dei 27 il 10 aprile, ha annunciato ieri Donald Tusk, presidente del Consiglio Ue, pochi minuti dopo il terzo «no» di Westminster al trattato di accordo con Bruxelles. Cioè due giorni prima della data-limite per non finire del baratro di un’uscita senza accordo, stabilita al 12 aprile. Una mossa per mettere sotto pressione Londra. «Il 12 aprile è il nuovo 29 marzo» ha riassunto il potente segretario generale della Commissione, il tedesco Martin Selmayr.

Per Emmanuel Macron, «se entro il 12 aprile la Gran Bretagna non ha dato il suo accordo a quello che abbiamo firmato, andremo verso l’assenza di deal, quindi una Brexit dura». Gli europei concedono ancora pazienza: accettano di esaminare una eventuale soluzione alternativa, sempre che Londra la proponga prima del 12 aprile, che è la data-limite per la Gran Bretagna per prepararsi a partecipare alle prossime elezioni europee. Ma per un portavoce della Commissione, adesso «un no deal è lo scenario più probabile». Per la Commissione, «adesso tocca alla Gran Bretagna indicare la strada da seguire».

Le strade possibili: o Theresa May riesce con un quarto voto a far passare l’accordo (a ogni voto, lo scarto tra «no» e «sì» è diminuito, 230 voti il 15 gennaio, 149 il 12 marzo e solo 58 ieri) o il parlamento britannico, che deve votare ancora lunedì 1° aprile su una nuova versione delle 8 alternative all’accordo già respinte (potrebbero fondersi in una sola proposta), approva per evitare un no deal; Londra può chiedere entro il 12 aprile una nuova estensione della data-limite, probabilmente fino a fine anno o anche oltre, oppure c’è un no deal. Un’altra ipotesi è che Londra rinunci all’articolo 50, le è stato concesso un diritto unilaterale a rinunciare alla Brexit, ma questo scenario resta molto improbabile.

Se c’è l’estensione lunga, la Gran Bretagna dovrà partecipare alle elezioni europee. In questo caso, la via d’uscita potrebbe essere una Brexit soft, con la Gran Bretagna che resta nell’Unione doganale, risolvendo così il nodo dell’Irlanda, che vive con ansia queste ore, per il rischio di un ritorno delle tensioni se non della guerra civile a cui hanno messo fine gli accordi del Good Friday del ’98 (che stabiliscono l’assenza di frontiere tra le due Irlande, condizione che potrà essere mantenuta solo se la Gran Bretagna resta nell’Unione doganale).

Con il voto di ieri, il parlamento britannico si è tagliato da solo la possibilità di controllare l’uscita dalla Ue: adesso sono i 27 a decidere. L’accordo concluso in due anni di negoziato, difatti, riguardava solo il periodo di transizione di una ventina di mesi. Un periodo che avrebbe dovuto servire per trovare una soluzione definitiva al divorzio. Per permettere un terzo voto, dopo le riserve dello speaker, era stata tolta dal testo la «dichiarazione politica», che era in realtà solo una dichiarazione di intenti sulle relazioni future, ancora tutte da definire.

La Ue si è preparata al no deal. Sono state prese disposizioni per prolungare certi programmi, per evitare un salto nel buio sulla pesca, per la continuità dei trasporti, ferroviari, aerei, sui ferry. Sono una serie di misure unilaterali prese dall’Europa. Altre misure sono ancora senza soluzione, perché richiedono reciprocità: in particolare i visti e i permessi di soggiorno dei cittadini. Resta nel vago anche il versamento del saldo di uscita della Gran Bretagna, 45 miliardi di euro. In caso di no deal, per la Gran Bretagna 700 accordi internazionali diventano caduchi da un giorno all’altro, Londra diventa «paese terzo» per la Ue.