Stamattina Enrico Letta presenterà al Consiglio europeo il suo report sul mercato europeo, commissionato dal presidente Michel. Il lavoro dell’ex segretario del Pd e del suo ex ministro Giovannini è parallelo e convergente rispetto al report Draghi sulla competitività commissionato invece dalla Commissione, che sarà definitivo per il 27 giugno. Conclusioni identiche: non c’è più tempo, la rifondazione dell’economia europea è questione di vita o di morte. «È l’ultima finestra di opportunità. Non possiamo aspettare di essere lasciati indietro da Cina e Usa», anticipa Letta. La chiave è l’integrazione, per Letta come per Draghi: «Non dobbiamo diventare gli Usa ma dobbiamo essere l’Unione e non la somma di 27 politiche industriali». L’opzione Draghi, che tutti considerano già in campo anche se nessuno si scopre prima di avere sottomano i risultati elettorali, è inseparabile dal progetto di rifondazione della Ue illustrato nei due report. L’ostacolo principale per l’ex presidente della Bce è questo. Non i giochi tattici dei vari partiti europei o gli interessi dei Paesi, che non hanno mai voluto un presidente della Commissione o del Consiglio forte. Quegli ostacoli ci sono ma lo scoglio principale è che parlare di Draghi significa parlare di un orizzonte esattamente opposto ai dogmi che orientano le scelte dei frugali, dunque in larga misura anche della Germania.

Sull’altro piatto della bilancia pesa il fatto che i guasti e i rischi indicati dai due report ci sono davvero. Dunque nessuno spalanca né blinda le porte. Solo Macron, primo sponsor di Draghi, va a un millimetro dall’ufficializzare la sua scelta: «Draghi è un amico formidabile e immenso. È stato un grande premier. Ma le nomine si fanno il giorno dopo le elezioni». Prudentissimo il leader del Pis polacco Morawiecki, colonna con FdI dei Conservatori: «È stato un buon partner e apprezzo la sua visione economica ma resta da vedere se c’è abbastanza potere politico per presentarlo come candidato valido». È il punto debole dell’ex premier italiano secondo molti: non avere un partito alle spalle col rischio anzi di passare per il candidato esterno di chi prevedibilmente uscirà sconfitto dalle urne, i liberali.

Anche il Pse, come in Italia il Pd, sceglie la prudenza, a differenza dei centristi il cui tifo è già alle stelle. Si espone solo il commissario Gentiloni: «Il cambiamento radicale che chiede Draghi è necessario». Muto il leader polacco Tusk, che però gioca un ruolo centrale. Draghi deve fare i conti con la determinazione del Ppe, che sarà quasi certamente il primo partito anche nel nuovo Parlamento europeo, nel voler conservare la guida della Commissione. Proprio Tusk, invece favorevole a Draghi e in questo momento storico molto ascoltato sia a Bruxelles che nel Ppe, dovrebbe essere l’elemento dirompente per modificare la posizione rigida dei popolari.

Altrettanto importante, come è ovvio, sarà la linea del governo italiano. Meloni non ha intenzione di scoprirsi prima delle elezioni. Anche chi, come il ministro Urso, «si riconosce nelle parole di Draghi, che sono le stesse di Meloni» si smarca quando si arriva alle candidature. Da Chigi fanno capire che il governo certo non si opporrebbe all’ex premier ma di qui a spingere, con Salvini la cui ostilità per Draghi trasuda dalle anticipazioni del libro di retroscena che ha appena dato alle stampe, ce ne passa. Ma forse il fragore sulla Commissione è fuorviante. La strada verso la presidenza del Consiglio europeo sarebbe per Draghi più sgombra e forse proprio quello è il vero obiettivo a cui mira. Frugali e tedeschi permettendo.