Mentre le agenzie riportavano ieri, tra le 15 e le 17 (ora italiana), fasi alterne di azioni di guerra attorno a Mariupol – a est della città le milizie attaccavano; i soldati ucraini respingevano l’attacco; le milizie attaccavano a sud e il comandante del battaglione «Azov» accusava di tradimento i propri comandi che non aprivano fuoco di copertura – più o meno alla stessa ora Interfax scriveva che Poroshenko, dal Galles, e le «Repubbliche popolari» (le fonti russe usano sempre il virgolettato o il termine autoproclamatesi) si dicevano pronti al cessate il fuoco, che potrebbe entrare in vigore già oggi pomeriggio, se questa mattina il gruppo di contatto si riunirà a Minsk e se il piano di pace prenderà il via.

Molti i «se», che si aggiungono ai dubbi espressi l’altro ieri dalle milizie del Donbass, al primo annuncio di accordo tra Putin e Poroshenko: «Non ho notizia di nessun accordo con la Repubblica Popolare di Donetsk riguardo alla cessazione delle azioni di guerra», aveva dichiarato il responsabile del dipartimento politico del Ministero della difesa della Rpd Vladislav Brig. «Poroshenko non ha il controllo dei battaglioni punitivi; essi non sottostanno alle sue decisioni».

In ogni caso, Interfax assicurava che i piani di pace di Putin e Poroshenko in alcune parti «si intersecano», pur se Poroshenko continua a chiedere che la Russia cessi i rifornimenti di armi e di uomini alle «repubbliche» e la Russia continua a negare il proprio coinvolgimento nel Donbass. D’altra parte, Putin chiede che Kiev allontani le proprie artiglierie dalle città (ancora ieri mattina Ntv mostrava il cratere provocato da una granata vicino al posto di frontiera di Voloshino, in territorio russo, nella regione di Rostov) per evitare di colpire i civili, non usi l’aviazione contro i centri abitati e apra corridoi umanitari per i profughi.

Per parte sua, il Governo ucraino sembra per ora rimanere fermo sul proprio piano di «Ricostruzione dell’Ucraina», che di pacifico sembra avere ben poco, facendo perno su tre punti: il progetto «Muraglia», da attuarsi in sei mesi; la proclamata intenzione di voler ricevere lo status di partner speciale della Nato e alleato-chiave, entro fine anno; e, sempre da qui al 31 dicembre, ricevere aiuti militari da G7, Ue e Nato.

Da parte delle Repubbliche di Donetsk e Lugansk, il piano di pace (che, secondo quasi tutti gli osservatori, coincide in molti punti con quello di Putin) ufficializzato ieri in una dichiarazione dei due rispettivi capi, Aleksandr Zakharcenko e Igor Plotnitskij, consiste nell’avvio del «regime di temporaneo cessate il fuoco», a partire dalle 15 (locali) di oggi, da parte sia dell’esercito che delle milizie popolari e nel divieto di intervento dell’aviazione militare sopra il territorio delle due repubbliche.

Secondo la proposta, l’Osce controllerà l’osservanza del cessate il fuoco nella «zona di sicurezza divisa in 5 settori, in ciascuno dei quali opereranno 40 osservatori». Il piano prevede anche l’apertura, dalle 10 del 7 settembre, di corridoi umanitari per il transito di profughi e di aiuti umanitari alle regioni di Donetsk e Lugansk.

Comunque, una buona dose di scetticismo sulla possibilità di giungere a uno «stabile cessate il fuoco» rimane e che Poroshenko, per sua stessa ammissione, sia stato spinto alla trattativa dai ripetuti successi sul campo da parte delle milizie popolari (da oltre un mese si hanno notizie quotidiane di diserzioni, rese di interi reparti, sconfinamenti in territorio russo per sottrarsi all’accerchiamento, da parte di drappelli o di interi reparti delle truppe di Kiev) potrebbe far pesare l’ago della bilancia, a Kiev, a favore del partito degli irriducibili; primi fra tutti i combattenti dei battaglioni filofascisti e neonazisti, sponsorizzati dai magnati che, tra l’altro, non hanno che da guadagnare da un indebolimento del Presidente, loro concorrente in affari.

Ancora ieri mattina Novorossija scriveva che il deputato della Rada Aleksandr Brighinets minacciava di far saltare la centrale elettrica che serve Lugansk e il territorio circostante, in caso di offensiva delle milizie.

In questo senso, significative le parole del Ministro degli esteri russo Sergej Lavrov, pronunciate ieri in un colloquio telefonico col suo omonimo francese Laurent Fabius: i due, sottolineando che «i fautori delle soluzioni di forza» non devono prendere il sopravvento, né a Kiev né in altre capitali, hanno evidenziato l’importanza dell’incontro di oggi a Minsk, con l’augurio che il piano di Putin possa servire di base per un lavoro proficuo del gruppo di contatto tra i rappresentanti di Russia, Osce e delle parti ucraine. Ma, d’altro canto, in una conferenza stampa al termine di colloqui col suo collega kirghiso Erlan Abdyldaev, lo stesso Lavrov dichiarava che proprio il «partito della guerra a Kiev» è sostenuto da Washington: lo conferma «l’intreccio di retorica antirussa nel momento in cui si intraprendono attivi sforzi alla ricerca di una soluzione politica».