A 12 anni dall’invasione Usa dell’Iraq, perde un’altra carta il mazzo dell’ex presidente Bush. Ieri in un’operazione delle forze governative irachene e delle milizie sciite avrebbe perso la vita «il re di fiori», Ezzat Ibrahim al-Douri, vice presidente di Saddam Hussein, considerato da Washington e Baghdad il nuovo stratega militare dello Stato Islamico.

Il governatore della provincia di Salah-a-din ha rivelato i dettagli: sarebbe morto ad Alam, poco fuori Tikrit, seppur il portavoce dell’ex partito Baath smentisca. Il corpo è stato portato nella capitale per l’esame del Dna.

Una vittoria secondo l’esercito iracheno che descrive l’ex generale come «la mente del gruppo terrorista». Fin dall’inizio dell’offensiva Isis apparve chiaro che il califfo godeva in parte del sostegno di ex militari sunniti e fedelissimi di Saddam, per la profonda conoscenza del territorio e le zone di influenza. Un’alleanza di convenienza. Ex membri del Baath e soldati fuoriusciti dall’esercito governativo (che subì una vera e propria epurazione della sua componente sunnita) hanno sostenuto ad ovest del paese l’avanzata islamista per la stessa ragione che ha mosso alcuni civili sunniti ad appoggiarla: sfruttare il caos per tornare al potere a Baghdad. Tra loro, secondo un rapporto del think tank Usa Soufan Group, gli ex membri del consiglio militare di Saddam, al Alwani e al Sweidani, e l’ex membro dell’intelligence al Turkmani.

Testimonianze raccolte dalla stampa tra fedelissimi del rais mostrano tale attitudine: allearsi con il nemico per sconfiggerne un altro, quel governo centrale sciita che ha estromesso la minoranza sunnita dal potere. Un’alleanza che non è affatto ideologica viste le radici del Baath e del regime di Saddam. Il partito, laico e nazionalista, ha sempre represso con la forza i gruppi islamisti considerandoli diretta minaccia alla stabilità. E, a loro volta, gli islamisti hanno sempre puntato alla distruzione di regimi laici come quelli di Hussein, Assad, Nasser, visti come i naturali nemici dell’Islam.

Resta perciò da capire il reale ruolo che Douri avrebbe ricoperto. Difficile immaginare che sia diventato tanto alleato di un gruppo radicale come l’Isis da divenirne lo stratega militare. Probabile che fosse a capo di un gruppo ribelle sunnita che, sulla scia dell’instabilità generata dall’Isis, ha lanciato la sua personale guerra alla nuova Baghdad. Ovvero l’ennesimo «effetto collaterale» dei settarismi figli delle politiche Usa nella regione.

Sul terreno, intanto, proseguono gli scontri. Ieri un’autobomba è esplosa fuori dal consolato Usa a Irbil, Kurdistan iracheno, provocando un morto e facendo montare la preoccupazione per un contagio ancora più pervasivo in una regione meno coinvolta nelle violenze. Resta invece al centro dello scontro Ramadi: secondo la polizia, gli islamisti sono a mezzo km dal centro della città, da cui ormai quasi tutti i civili sono fuggiti. Un nuovo esodo di massa che porta a 2.7 milioni il numero di iracheni sfollati.

Protesta il governo: i raid Usa sono inefficaci. Forse perché il Pentagono non considera Ramadi strategica: secondo il generale Dempsey, se la città cade non è un grosso problema perché «non così simbolica». Invece no: è il capoluogo della provincia di Anbar, una delle sorgenti della ribellione sunnita.