Lavoro

Uber, quando il salario dipende dal «mi piace» su una App

Uber, quando il salario dipende dal «mi piace» su una App

Capitalismo digitale Una giornata qualunque sotto il cielo di Uber: a Nuova Delhi 300 autisti protestano contro le paghe da fame, in Italia la rivolta dei tassisti contro la deregolamentazione del settore. Il doppio fronte della lotta per i diritti del lavoro digitale e quello della concorrenza nel settore del trasporto privato. La potenza "dirompente" del nuovo capitalismo e il ritardo, anche culturale, della politica

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 17 febbraio 2017

Un giorno di lotte sotto il cielo di Uber. A Nuova Delhi 300 autisti hanno scioperato ieri contro le paghe da fame e l’assenza delle tutele sociali sul lavoro, per malattia o incidente per chi lavora su strada con una piattaforma digitale. Il blocco dura da una settimana e torneranno a circolare quando saranno riconosciuti un aumento e lo status di lavoratori. «Uber non ha aiutato un autista morto in uno scontro. Siamo stati noi a fare una colletta per sostenere la famiglia. Abbiamo chiesto a Uber un aiuto, ma si sono rifiutati» ha raccontato l’autista Ravi Rathod all’Hindustan Times.

SONO LE STESSE RAGIONI che hanno portato il tribunale del lavoro inglese a imporre, con una sentenza di primo grado, l’assunzione di 40 mila autisti inglesi di Uber. Gli autisti non sono self-employed, ovvero «imprenditori di se stessi», ma «workers», lavoratori non subordinati. Questo è vero tanto a Londra, quanto a Nuova Delhi. Dall’altra parte del mondo, a Torino, Milano e Roma i tassisti hanno protestato contro un emendamento Lanzillotta (Pd) che fa slittare le limitazioni ai servizi di noleggio con conducente, aprendo così le porte del settore alla multinazionale americana che fattura oltre 50 miliardi di dollari in 60 paesi.

UBER OGGI È IMPEGNATA su due fronti. Il primo è quello dove si combatte la battaglia per i diritti sulle piattaforme digitali agili, le cosiddette lean platform, in cui rientrano anche Deliveroo e Foodora. Queste piattaforme organizzano la forza lavoro attraverso un algoritmo e collegano clienti e autisti traendo profitto da una percentuale sulla transazione e dalla diminuzione del costo del lavoro. Il secondo riguarda l’effetto «dirompente» [Disruptive] sul mercato del trasporto tradizionale dei taxi. Guidare una vettura con il marchio Uber non obbliga l’autista ad acquistare una costosissima licenza, né a rispettare le regole stabilite dal mercato dei radio-taxi.

LA PIATTAFORMA AGILE sconvolge questo assetto attraverso un sistema di tariffe variabili, sul modello delle compagnie aeree low-cost, e un’applicazione scaricabile su smartphone che geolocalizza le macchine disponibili e permette ai clienti di valutare gli autisti come si fa con i ristoranti su TripAdvisor. La loro paga dipende anche dal voto ricevuto a fine corsa. Il salario dipende da un «mi piace» su una piattaforma che può decidere di «disconnettere» l’autista che ha incassato valutazioni negative. Non è una puntata della serie «Black Mirror». È la realtà del gig-work: il lavoretto on-demand o prestazione digitale.

QUESTO MODELLO ha sconvolto il settore del trasporto privato negli Stati Uniti. In Europa ha incontrato la dura opposizione dei tassisti e dei sindacati. A maggio 2015 il tribunale di Milano ha bandito anche in Italia l’applicazione più dirompente, UberPop, che permette a chiunque di usare la propria macchina per fare trasporto passeggeri . L’accusa era di concorrenza sleale. Anche UberBlack, un servizio di alta gamma con conducente, è considerato abusivo se la vettura non parte da un garage  quando un cliente prenota la corsa dal suo cellulare.

SUL TERRENO della concorrenza, e della protezione dei singoli mercati, i legislatori hanno quasi sempre le idee chiare. Interpretano il capitalismo digitale solo come un fenomeno fiscale e commerciale. Le idee si fanno più confuse quando si tratta di regolare il rapporto tra l’intermediario digitale e i lavoratori. Negli Usa sono innumerevoli le class-action degli autisti che chiedono il riconoscimento dello status di lavoratori, ma dai tribunali non è emerso un orientamento unico, come invece è accaduto a Londra.

IN ITALIA LE IDEE SONO POCHE e confuse. Dopo la protesta dei fattorini in bicicletta che lavorano a Torino per Foodora, il ministro del lavoro Poletti aveva annunciato una consultazione con i suoi colleghi europei per affrontare gli aspetti giuslavoristici, fiscali e sociali della gig economy. Un settore dove le piattaforme sono libere di scatenare la loro «dirompenza», la stessa che viene ostacolata nel campo della concorrenza. Per il momento solo Giorgio Airaudo di Sinistra Italiana si è premurato di presentare una proposta di legge che cerca di dare una forma all’iper-precariato. Ad oggi i gig-workers sono considerati appendici organiche di un algoritmo.

 

***Dossier Capitalismo e piattaforme digitali

La Californian Ideology e il sogno dell’automazione totale nascondono un segreto. E cioè che il lavoro non è finito: al contrario, è sempre di più. Solo che è talmente invisibile che a nessuno viene in mente che vada pagato.A cura di Roberto Ciccarelli

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