Non scherziamo. I problemi della tv italiana sono seri e di lunga durata per credere alle ritardatarie denunce di qualche conduttore.

A Dogliani, intervistato da Grasso, con la risibile affermazione che mai prima d’ora lui aveva visto una tale ingerenza politica in Rai, Fabio Fazio è riuscito nella missione impossibile di dar ragione ad Anzaldi («teme per il suo megastipendio»). Beato lui; ha vissuto gli ultimi 20 anni come le tre scimmiette che non sentono, non vedono, non parlano. Magari se non si mette d’accordo sul contratto potrà spacciarsi per martire politico.

Al festival di Dogliani nei giorni scorsi hanno parlato della tv del futuro, ma i guasti della tv del presente e di quella del passato sono ancora vivi e irrisolti.

L’Italia sta dentro, fino al collo, al duopolio consegnatoci dalla legge Mammì del 1990: la moltiplicazione digitale delle frequenze non ha risolto il problema. Rai e Mediaset, che posseggono le sei reti generaliste più importanti, hanno messo le mani sulla fetta più consistente di quelle tematiche e di quelle semigeneraliste: una quindicina per la Rai e una decina per Mediaset (senza parlare delle pay-tv di quest’ultima). E le sei reti generaliste principali, in capo a due soli proprietari, occupano ancora oltre la metà degli ascolti con punte che vanno oltre il 60% (come successo venerdì scorso).

L’ipertrofia generalista italiana è, infatti, il problema.

Sette reti generaliste (per dire solo delle principali) non ce l’ha nessuno, in Francia sono solo 4, in Inghilterra 3. Come hanno osservato tempo fa Stefano Balassone e Angelo Guglielmi il nostro paese nel settore tv ha l’offerta più ampia, ma è quello che nello stesso settore produce meno posti di lavoro. Mentre i ricavi del sistema audiovisivo globale (compresi cinema e pay-tv) sono i più bassi.

Questa anomala situazione ha la sua principale spiegazione nel fatto che la tv nazionale deve importare dall’estero molti dei programmi necessari a riempire gli spazi dilatati di una sproporzionata offerta. Il risultato è un saldo economico negativo che deprime le possibilità occupazionali e produttive del paese.

Tutto questo non è accaduto per caso o per un destino cinico e baro, ma per le gravi colpe della politica che sulla questione televisiva ha sempre fatto finta di niente. Per ignavia, per convenienza, per calcolo si è avallato un duopolio di fatto nel mercato dell’emittenza, ‘politicizzato’ sin nel midollo, sia nel ‘pubblico’ che nel ‘privato’, che ha finito per fare da tappo alle potenzialità del sistema

Parliamo dei partiti di centrodestra e di quelli di centrosinistra.

Anzi, proprio la sinistra si porta dietro una pesantissima responsabilità storica, visto che quando ebbe la possibilità di mettere ordine, dal governo, ad un sistema che soffocava la concorrenza e condizionava la politica, non lo fece, anche in barba alle sentenze della Corte Costituzionale: D’Alema preferì praticare l’inciucio pensando di essere il più furbo di tutti, Veltroni smentì più volte se stesso e le sue iniziali battaglie per il ‘disarmo televisivo’, Prodi scelse il quieto vivere e Bertinotti i salotti dell’avversario invece che la lotta per contrastarlo.

Ed oggi assistiamo allo spettacolo dell’ennesimo cortocircuito politico-tv, tra vigilanti che minacciano, conduttori che straparlano, un Cda che non decide: anche perché nessuno è riuscito nella minimale impresa, in questa storia italiana, di dare almeno uno straccio di autonomia alla Rai e alle sue funzioni.

Governi vecchi e nuovi, destra e sinistra, populisti ed europeisti, rottamati e rottamatori, in questo solidamente uniti, stanno a guardia di questa terra di nessuno che è la tv italiana, in una guerra di posizione animata da qualche scaramuccia diversiva. Tutti insieme appassionatamente.