In giacca e cravatta e immerso nell’acqua fino alle ginocchia, Simon Kofe, ministro degli Esteri di Tuvalu, piccolo arcipelago del Pacifico la cui esistenza è minacciata dall’innalzamento del livello degli oceani, ha lanciato un appello con un video messaggio alla COP26 di Glasgow che ha fatto il giro del mondo: «Stiamo affondando», ha detto, riferendosi al suo paese e a tutte le nazioni insulari. Lo ha fatto per chiedere un impegno globale per «raggiungere entro metà secolo le emissioni zero» e «urgenti finanziamenti per il clima in modo da affrontare perdite e danni».

Una trovata ad effetto degna di quello che ha ormai assunto il ruolo di luogo simbolo del riscaldamento globale. Un enorme capitale simbolico che ha i suoi pro e i suoi contro. Nicola Manghi è dottorando in Antropologia e ha vissuto a Tuvalu per la sua tesi sulle ricadute sociali e politiche di un’emergenza ambientale che si abbatte su uno dei più piccoli stati sovrani esistenti al mondo. La taglia ridottissima (11.000 abitanti e 26 km2 di terre emerse) non impedisce a Tuvalu di ospitare una notevole varietà linguistica e culturale.

«Ciascuna delle otto isole principali che formano l’arcipelago può rivendicare usi e tradizioni che le distinguono dalle altre. Questa varietà è rappresentata anche nel nome del paese: letteralmente, Tuvalu significa «otto tradizioni». Dal punto di vista ambientale, si tratta di un luogo intrinsecamente fragile: l’altissimo livello di biodiversità ed endemismo (per alcuni gruppi di specie arriva al 90%) lo rendono un piccolo gioiello corallino nell’immensità dell’oceano, retto su equilibri ecologici delicati facilmente perturbabili, e quindi esposto anche a rischi ecologici locali, come il deterioramento degli habitat, l’introduzione di specie invasive e l’inquinamento del suolo.

Difficile, dunque, isolare gli effetti del riscaldamento globale dall’insieme dei fenomeni in atto in un luogo così piccolo. «Benché i suoi effetti raggiungano tutte le latitudini, il surriscaldamento del pianeta è un fenomeno che può essere visualizzato come tale solo su scala globale, osservando tendenze di lungo corso. Questo è in parziale contraddizione con il ruolo che Tuvalu è andata ritagliandosi nei decenni, rappresentandosi come luogo in cui gli effetti del riscaldamento globale sarebbero visibili in scala 1:1.
Questa auto-rappresentazione, potente dal punto di vista politico, si scontra con la complessità di un luogo in profonda trasformazione: una modernizzazione che procede a velocità esorbitante, l’urbanizzazione di Funafuti (la capitale, ndr), il brain drain legato all’emigrazione… Ciò non significa affatto sminuire il pericolo connesso all’innalzamento del livello dei mari, come pure qualche negazionista prova a fare. «Nel medio periodo, anche se gli atolli dovessero aumentare il ritmo della propria crescita, come è stato ipotizzato possa accadere da alcuni studiosi, è comunque difficile immaginare che a Tuvalu la vita possa continuare com’è proceduta sino a oggi».

In loco, tuttavia, racconta Nicola, «diventa impossibile attribuire inequivocabilmente le singole trasformazioni in corso negli atolli, che sono luoghi particolarmente vivaci dal punto di vista ecologico, agli effetti del riscaldamento globale. I rapporti causali sono ben più complessi (sebbene non meno drammatici) di quanto anche la narrazione fatta propria dal governo di Tuvalu talvolta pretenda».

A Tuvalu, il rischio esistenziale che il riscaldamento globale rappresenta per l’arcipelago è argomento dibattuto da più o meno trent’anni. «Ci sono stati interventi locali, orientati soprattutto a contrastare l’erosione costiera. Alcune isole hanno eretto delle protezioni, mentre nella capitale è stata creata un’estensione artificiale dell’isola, recuperando suolo dal fondale della laguna. Rimedi temporanei, che nella popolazione suscitano sentimenti alterni: alcune persone li vedono come simboli incarnati della lotta che Tuvalu conduce per evitare di affondare, mentre altre rimangono scettiche rispetto alla loro efficacia».

Più sistematica, invece, l’azione diplomatica intrapresa dal governo. «La consapevolezza del rischio climatico è andata di pari passo con un’assunzione esplicita e intenzionale, da parte del governo, di una linea di politica estera fortemente orientata sul tema: se da un lato il riscaldamento globale costituisce una minaccia esistenziale per Tuvalu, dall’altro questa circostanza, nel caso di un paese dalle dimensioni così ridotte, rappresenta un capitale diplomatico notevole che ha finito per monopolizzare l’agenda estera del paese».

Secondo Manghi è importante portare alla luce il rischio che la narrazione relativa al riscaldamento globale e alla sparizione di Tuvalu finisca per appiattire l’immagine del paese. «La condizione di vittime del riscaldamento globale ha conferito a Tuvalu e ai tuvaluani una visibilità che prima non avevano. Si tratta, però, di una visibilità a doppio taglio, interamente condizionata alla funesta fama toccata in sorte al paese. Più volte amici e conoscenti mi hanno riportato la frustrazione di essere ridotti, incontrando gente straniera, a questa dimensione: ah, Tuvalu, il paese che sta affondando! Si tratta di un rischio sottovalutato anche dai mondi dell’attivismo che rivolgono l’attenzione a questi luoghi».

Manghi ci tiene a concludere su una nota positiva. In un periodo di crisi globale, Tuvalu ha saputo trasformare la sua posizione remota in una risorsa. «Se non si considerano Corea del Nord e Turkmenistan, sui cui resoconti ufficiali è opportuno mantenere qualche riserva, Tuvalu rimane l’ultimo paese del mondo a non aver registrato alcun caso di Covid-19. Le circostanze geografiche indubbiamente aiutano, ma va sottolineato il merito dell’azione tempestiva intrapresa dal governo, e in particolare dal ministro della salute, Isaia Taape».