Per l’ex ministra, e ora Presidente della Commissione Difesa del Senato, Roberta Pinotti il settore militare «soprattutto dal punto di vista industriale» è di grande importanza per le prospettive di ripresa del Paese.

Alla Camera l’On. Ferrari (Lega) ritiene il voto unanime che apre al rafforzamento dello strumento militare nel Recovery Plan «un punto di partenza» per per poi innalzare l’investimento e l’on. Perego Di Cremnago (Forza Italia) auspica che i progetti del Piano possano essere concretamente realizzati «aumentando così le risorse a disposizione della Difesa». L’on. Dori a nome del Movimento 5 Stelle si allinea a questa sintesi mentre l’on. Deidda (FdI) addirittura ancora non si accontenta perché vede indeterminatezza sulle risorse economiche e chiede ulteriore interlocuzione per verificare la congruità delle risorse.

UN CORO DI VOCI a favore di più spesa militare senza alcuna voce dissonante, accolto con soddisfazione dal Sottosegretario alla Difesa Mulé perché «nei contenuti e perfino nella scelta dei vocaboli, corrisponde alla visione organica che del Pnrr ha il Governo». Cosa tutto questo riguardi uno «strumento finanziario che è temporaneo per la ripresa che contribuirà a riparare i danni economici e sociali causati dalla pandemia di coronavirus per creare un’Europa più verde, digitale, resiliente e adeguata alle sfide presenti e future» è difficile da comprendere.

L’UNANIMITÀ È PERÒ contingente a un Governo Draghi con dentro (quasi) tutti, ma è sopratutto indice della continua e marcata influenza del complesso militare-industriale sulla politica: una vera e propri«ideologia» delle armi che pare irresistibile. I decisori politici credono all’assioma di una produzione militare fondamentale e utile anche dal punto di vista economico. Proprio da queste pagine abbiamo recentemente smantellato il «mito» di un comparto armiero fondamentale: valendo meno dell’1% sia per Pil che per export e tasso occupazionale si tratta in realtà di un settore marginale dell’economia.

Che però trae sostegno da un flusso sovradimensionato di soldi pubblici: già i Fondi Pluriennali di investimento e sviluppo infrastrutturale destinano alla Difesa 36,7 dei 143,9 miliardi di euro stanziati (circa 27 per il solo acquisto di sistemi d’arma). Mentre nel solo budget 2021 del Ministero per lo Sviluppo Economico oltre il 70% del programma di “Promozione e attuazione di politiche di sviluppo, competitività e innovazione” per le imprese finisce in nuovi sistemi militari (da soli quasi il 30% del Bilancio complessivo Mise).

Una ripresa post-pandemia basata anche su investimenti in armamenti non è logica sia intrinsecamente (qualsiasi siano le dinamiche economiche e tecnologiche alla fine gli armamenti sono funzionali ad un sistema conflittuale) sia per chiara marginalità economico-occupazionale.

MA IL PARLAMENTO è andato oltre le stesse richieste dei produttori del settore della difesa, gli unici auditi – anche più volte – dalle Commissioni Difesa di Camera e Senato. Nei suoi interventi il Presidente di Aiad (Federazione delle Aziende Italiane per l’Aerospazio, la Difesa e la Sicurezza) Guido Crosetto sottolineava senza possibile fraintendimento e «come logico» che il settore della Difesa non era inserito negli assi del Next Generation EU.

Di conseguenza tale destinazione non poteva essere nemmeno compresa nella prima formulazione del Recovery Plan italiano, se non facendo rientrare le aziende di produzione militare negli ambiti effettivamente previsti (digitalizzazione/innovazione, transizione ecologica e inclusione sociale). Lo stesso Crosetto riferiva di un possibile ampliamento di orizzonte e ripensamento – tutto da verificare – a Bruxelles, ma allo stato attuale Deputati e Senatori lo considerano già un dato acquisito. Gli armamenti dunque rientrano dalla finestra solo travestiti da «tecnologia» (addirittura «verde»), ma per Governo e Parlamento è chiaro che si tratta solo dell’ennesimo aiuto alla spesa militare.

L’impatto forte, anche di natura emotiva, della pandemia da coronavirus nella primavera 2020 ci aveva fatto pensare a un cambio radicale anche nelle politiche pubbliche oltre che nel sentire comune degli italiani. Non è andata così.
Il nostro Paese è risultato vulnerabile alla crisi sanitarie – mancava addirittura un “Piano nazionale per le emergenze di tipo pandemico” – mentre la gestione delle emergenze di natura militare è costantemente pianificata, aggiornata e sovvenzionata in ambito Nato. Non solo: il nostro Paese è sostanzialmente autosufficiente nella produzione di sistemi per la Difesa armata, ma è totalmente dipendente dall’estero per le tecnologie medico-sanitarie e gli stessi medicinali.

L’ITALIA ESPORTA annualmente sistemi militari e di sicurezza per 5 miliardi di euro all’anno, ma i dati Istat evidenziano che importiamo apparecchiature mediche per 7 miliardi e addirittura 24 miliardi in medicinali (anche se ne esportiamo per 31 miliardi). Un saldo positivo per le armi, un deficit per la sanità.

Utilizzare i fondi del Pnrr per accrescere questo settore – che già oggi fonda i suoi profitti maggiori nell’esportazione di armamenti nelle aree più a rischio del pianeta – rappresenta l’esatto contrario degli obiettivi di «rinascita» che il Next Generation EU intende perseguire. Sarebbe ora che i nostri rappresentanti politici se ne rendessero conto.

* Rete italiana pace e disarmo