«Cartesiano e implacabile, pulito e tagliente come un bisturi, un universo scintillante di pietre dure, leggero e levigato, quello che ci voleva per riappropriarsi di un teatro che aveva smesso di parlarci perché pretendevamo di fargli dire ciò che non gli interessa». Così riassumerei l’impressione che ho avuto leggendo, Pazzo per l’opera. Istruzioni per l’abuso del melodramma (Garzanti, 2020, 216 pp.), l’ultimo libro di Alberto Mattioli, giornalista oltreché saggista e lui stesso librettista, senza dimenticare i suoi (at)tributi da gattolico praticante.

IL FATTO È CHE, dopo avere a lungo cercato le parole per interpretare sinteticamente la scrittura di uno dei più acuti interpreti a piede libero di quel mondo di «pazzi» (cit.) che è il teatro d’opera, mi sono reso conto che quelle che più si adattavano allo scopo erano quelle (al netto di qualche preposizione) che Mattioli stesso ha tributato alle leggendarie interpretazioni rossiniane di Claudio Abbado (dunque cit. cit. cit.). Sì perché, se il nitore affilato e trasognato delle sue interpretazioni fa di Abbado il Rossini della direzione d’orchestra, la limpidezza pungente e meravigliata delle sue interpretazioni (mutata la bacchetta in «penna») fa di Mattioli il Rossini del giornalismo d’opera, con quella tensione mai calante tra un entusiasmo vorace sempre pronto a traboccare per empatia con le migliaia di opere viste e un esercizio critico che interviene a contenere e a mettere ordine tra quelle emozioni che il melodramma non può che suscitare scomposte, insomma con un tira e molla costante tra una martellante pulsione (assai emiliana: cit.) alla gozzoviglia estatica e una coscienza estetica che sublima quella pulsione in giudizio circostanziato.

LE PIETRE DURE scolpite da Mattioli sono leggere ma taglienti proprio perché il giudicante si espone sempre al giudicato, assumendosi in pieno la responsabilità non solo della funzione del critico (rarissima avis), ma anche quella di mettere i suoi lettori nella condizione di riappropriarsi di un teatro che in molti casi ha smesso di parlare loro perché direzioni artistiche ignoranti o miopi, bacchette assai corte e claudicanti, regie velleitariamente passatiste o futuriste, voci buttate nell’agone senza criterio, hanno preteso di fargli dire ciò che non gli interessa. Allora cosa interessa il teatro d’opera in un presente al quale secondo molti è estraneo da tempo? Facciamocelo dire dal bisturi di Mattioli, che incide per cercare di curare: occorre fare «spazio a un modo diverso, nuovo, coraggioso, problematico, di presentare al pubblico quel che il pubblico crede, spesso a torto, di conoscere. I capolavori del passato non servono come rifugio dalle contraddizioni del presente. Al contrario, compito dell’interprete è trovare le ragioni del presente in quel passato, cosa c’è lì di nostro, di contemporaneo, di urgente, perfino di necessario».