Dopo le fanfare presidenziali e i canti delle moschee, ovvero la Preghiera della Conquista che il direttorato degli affari religiosi ha dato mandato di far risuonare nel paese, all’azione militare voluta da Erdogan, si sono presto accodati i proclami di praticamente quasi tutto lo spettro politico principale, ad eccezione dell’Hdp e di altre sigle minori.

SCONTATO L’APPOGGIO dei partiti ultranazionalisti Mhp e Iyi, il primo alleato del governo, il secondo tecnicamente all’opposizione. Sia Devlet Bahceli che Meral Aksener, i rispettivi leader, hanno benedetto l’impresa bellica destinata a «spezzare la spina dorsale dei terroristi».

Il partito repubblicano Chp, principale opposizione in parlamento, ha accantonato le proprie pretese di formazione progressista in nome di un ritorno, nemmeno troppo sorprendente, ai crismi del nazionalismo, dello statalismo e del militarismo che hanno caratterizzato la sua storia, vecchia quanto la repubblica. Dal segretario Kilicdaroglu che rivolge le proprie «preghiere agli eroici soldati» al giovane astro nascente, il sindaco di Istanbul Imamoglu che si dice «sempre al fianco dei nostri soldati», nessuno ha resistito al richiamo dell’identità della repubblica turca, dove lo stato resta la vera religione e l’esercito il suo santificato braccio armato. Una visione che non è limitata alle sfere alte della politica, ma trova condivisione buona parte della popolazione.

UN’IDEOLOGIA che non è prodotto dell’Erdoganismo, il quale casomai l’ha ereditata e plasmata per riadattarla a sé e ai suoi scopi. Con il risultato che, mentre si addita il dittatore di oggi in carica, si tenta di idealizzare un passato democratico e repubblicano che non solo non è mai esistito, ma ha prodotto ciò a cui assistiamo oggi. L’Hdp e le altre opposizioni, dicevamo. Il partito della sinistra libertaria filocurda si è opposto in parlamento votando contro la proroga all’autorizzazione delle forze armate in Siria per un altro anno. «È tempo di dire no ad altri permessi di guerra» aveva annunciato Sezai Temelli, uno dei due co-segretari del partito. Il risultato è che Temelli, la collega Buldan e altri 3 parlamentari sono oggi sotto accusa per propaganda a favore del terrorismo e denigrazione dello stato. D’altra parte, il ministro dell’interno Soylu, tra i più radicali nell’esecutivo, era stato chiaro. E infatti ha annunciato l’esistenza di «indagini contro 500 persone che hanno offeso sui social media l’operazione militare e accusato il nostro Paese d’invasione». 121 invece coloro che sono stati tratti in arresto con le stesse accuse. Dove non arrivano le manette, arriva la censura.

L’AUTORITÀ GARANTE per le telecomunicazioni ha diffuso una nota scritta con cui ha annunciato il silenzio radiotelevisivo sulle operazioni militari in corso: «Non tollereremo trasmissioni che servono i propositi del terrorismo e ingannano i nostri cittadini con informazioni false e tendenziose». Dalle zone di confine giunge invece la conferma di restrizioni all’accesso ai social media attraverso connessioni di rete fissa. Twitter, Facebook, WhatsApp e Instagram limitati nelle provincie di Gaziantep, Sanliurfa e Hatay secondo analisi condotte dall’osservatorio Netoblocks.org. Il conflitto è travasato anche in territorio turco: morti e feriti tra i civili si registrano nelle regioni di Urfa e Mardin. Proprio da quest’ultima città, il veterano della politica curda e co-sindaco destituito Ahmet Türk ha sintetizzato: «Siamo di nuovo faccia a faccia con la mentalità che vuole condurre la Turchia nel pantano del Medio Oriente».