La cena delle beffe, opera di Umberto Giordano su libretto di Sem Benelli, torna sul palcoscenico del Teatro alla Scala di Milano a 92 anni dalla prima storica del 1924, diretta da Arturo Toscanini, con la regia di Giovacchino Forzano (a sua volta librettista per Puccini, Mascagni e Leoncavallo) e le scene di Galileo Chini (protagonista del Liberty italiano), interpretata da Carmen Melis (futura maestra di Renata Tebaldi), Hipólito Lázaro (il tenore preferito di Mascagni, che per lui creò i ruoli da protagonista in Parisina e Il piccolo Marat) e Benvenuto Franci. Un’opera la cui realizzazione parla di un’intera epoca, riassumendola attraverso i suoi esponenti di maggiore rilievo. L’idea del sovrintendente Alexander Pereira e del direttore musicale Riccardo Chailly è non solo quella di riproporre opere create per la Scala ), ma anche quella di riscoprire il verismo musicale italiano, oltre i soliti Cavalleria rusticana e Pagliacci, regolarmente messi in scena dal teatro milanese negli ultimi anni con la regia di Mario Martone, cui è stato affidato il compito di allestire anche La cena delle beffe.

La direzione è stata data a Carlo Rizzi, anch’egli di recente impegnato nell’esecuzione dei due atti unici di Mascagni e Leoncavallo, che ha dichiarato: «quando ho preso in mano la partitura per la prima volta ero un po’ perplesso. Poi mano a mano ne ho scoperto le bellezze, melodiche e di orchestrazione. Per il protagonista è difficile, ma credo che questo allestimento dimostrerà che è un titolo che deve rientrare nel repertorio». La perplessità del direttore è fondata. Il libretto di Benelli, sebbene il dramma neoromantico del 1909 che ne è la base abbia avuto grande successo e sia piaciuto a Sarah Bernhardt (che lo portò in scena a Parigi nel 1910), ai fratelli John e Lionel Barrymore (che lo portarono in scena per ben 256 repliche a New York nel 1919) e al regista Alessandro Blasetti (che nel 1941 ne ricavò un film), è spesso ampolloso, ridondante (la parola «pazzo», riferita al personaggio di Neri, viene ripetuta decine di volte), pieno di perifrasi inutili, di doppi sensi involontariamente grotteschi (su tutti: «me l’hai goduta» nel II atto), oltre che drammaturgicamente poco verosimile (a partire dall’ambientazione nella Firenze medicea, per fortuna smantellata dall’allestimento di Martone).
È questa una delle ragioni per cui l’opera nel secondo dopoguerra è uscita dal repertorio, per riaffacciarvisi solo sporadicamente negli ultimi trent’anni. Un’altra ragione è ben espressa dal tenore Marco Berti, scritturato dalla Scala per il ruolo di Giannetto: «è come cantare tre Andrea Chénier in una volta sola! Difficilissimo». Il ruolo del tenore, del baritono e del soprano hanno tessiture proibitive, tutte proiettate verso l’acuto, con continue sforzature e insistenze sui passaggi di registro. Berti esce dalla prova vittorioso, confermandosi uno dei pochi tenori capaci oggi di fronteggiare il ruolo; Nicola Alaimo, nei panni di Neri, è altrettanto convincente vocalmente e scenicamente; nel ruolo di Ginevra, Kristin Lewis, si rivela invece sfuocata nel registro centrale quanto sforzata e stimbrata in quello acuto.

Rizzi dal canto suo fa di tutto per tenere a bada una partitura a tratti armonicamente e contrappuntisticamente interessante, ma spesso turgida, effettistica e sopra le righe: in fondo ce la fa, senza perdere mai il senso del ritmo drammatico.