Difficile immaginare un finale di campagna elettorale più sottotono. I leader del centrodestra sono finalmente insieme, dietro lo stesso tavolo, nel magnifico Tempio di Adriano a Roma, accompagnati dal candidato per il Lazio Stefano Parisi. Però sembrano sperare che nessuno se ne accorga. Un’istantanea ricordo e via, ai rispettivi appuntamenti, qualcuno sullo schermo, come re Silvio, che solo dagli studi di Matrix renderà ufficiale quello che aveva già lasciato intendere in mille modi: «Sono lieto di potervi annunciare una buona notizia. L’attuale presidente del Parlamento Europeo, Tajani, ha sciolto la riserva e ha dato la disponibilità a guidare un governo di centrodestra». Gli altri, soprattutto Salvini, immersi in un più cospicuo bagno di folla.

Il mattatore, qui, è Berlusconi. Acclamato dall’inizio alla fine e «per fortuna che Silvio c’è». Istrionico, deterge il sudore dalla fronte di Matteo il pedalatore, che la campagna se l’è fatta tutta sul campo, poi cerca di superarlo a destra sulla legittima difesa: «In Italia devi fare il terzo grado all’aggressore prima di sparare». E tuttavia il Cavaliere, pur tenuto al riparo dalle fatiche comizianti dopo il malore, appare stanco. E’ lui che insegue e si vede.

«CI TENEVO AD AVERE TUTTI intorno a un tavolo. Sono sempre le donne a riunire la famiglia», tripudia sorella Giorgia in versione tradizionalista. Peccato che non sia vero. La famiglia, più che dall’angelo del focolare, è tenuta insieme dall’interesse. Il pezzo forte della propaganda del centrodestra non è la Flat Tax, che pure Berlusconi esalta a dovere. Non è neppure il ruggito securitario di Salvini. È la stabilità: «Solo noi possiamo raggiungere il 40%. Pd e M5S sono troppo lontani». A un metro dall’arrivo, con il panico da instabilità e ingovernabilità che monta di giorno in giorno, la sola vera arma segreta della destra è questa: o noi o il caos. Un «voto utile» elevato a ennesima potenza. È senz’altro un’arma efficace, si vedrà domenica se determinante. Ma per poterla usare bisogna stare insieme. Magari senza amore, certo con profonda diffidenza reciproca, quella che Salvini esplicita senza falsi pudori: «Con Berlusconi bisogna sempre stare attenti. Come San Tommaso». E tuttavia insieme.

TANTO PIÙ CHE L’USCITA di sicurezza, che ad Arcore era stata in realtà considerata a lungo come quella principale, si è chiusa proprio in campagna elettorale. Quando l’ex socio del Nazareno strappa l’applauso pronunciando le parole che commuovono Giorgia Meloni, «Il mio impegno è quello di non aprirci a un governo con la sinistra. È un impegno che abbiamo preso con gli elettori», probabilmente è sincero. Perché i numeri per l’accordo con Renzi quasi certamente non ci saranno, ma anche perché nelle condizioni date l’intesa sarebbe un suicidio politico.

Dunque non resta che la coalizione. Per amore o per forza, e tenendo le dita ben intrecciate nella paura dell’irreparabile: quel voto in più alla Lega che non solo rovescerebbe come un guanto i rapporti di forza all’interno del centrodestra ma squasserebbe definitivamente il già fragilissimo quadro politico complessivo.

Il rischio c’è. Nessuno lo sa meglio di Silvio Berlusconi, che si vede serviti i sondaggi scomposti regione per regione a ritmo quasi quotidiano. Arrivano ad Arcore, ma di lì passano di mano in mano nello stato maggiore e fomentano malumori che, se il sorpasso arriverà davvero, esploderanno.

IN EMILIA-ROMAGNA, ad esempio, la Lega era al palo. Con le candidature alla guida sia della Regione che di Bologna è stata proprio Fi a servire la palla al partito di Salvini: che ora conta di superare il 15%. In Toscana la musica non cambia. Anche nel Lazio gli azzurri hanno dato involontariamente una mano al Carroccio. Da sempre Berlusconi aveva affidato la regione alle truppe degli ex An, salvo poi farli fuori, con la sola eccezione di Gasparri, dalle liste di queste elezioni: «E dove credete che siano finiti quei capibastone?», commenta sarcastico un forzista che conosce bene il Lazio. In effetti la Lega, secondo i pronostici, potrebbe superare anche qui il 10%. E che dire della Liguria, dove il governatore, che governa anche la Fi locale, è di fatto più vicino alla Lega che ad Arcore, e dove di conseguenza i consensi per Salvini si potrebbero impennare? Senza contare le antiche roccaforti, la Lombardia e a maggior ragione il Veneto.

A conti fatti, forse, la vera incognita potenzialmente esplosiva per tutti, domenica, sarà proprio il risultato della Lega.