Tra i primi a riaprire dopo il lockdown e la chiusura obbligatoria è stato il museo ebraico di Roma, poi lo hanno seguito – o sono in procinto di farlo – anche gli altri. Sono infatti almeno ventiquattro i musei ebraici sparsi per la penisola che stanno riorganizzandosi – con cautela – per affrontare la nuova stagione segnata dal distanziamento sociale.

SI TRATTA DI UNA PRESENZA minuta e diffusa che racconta arte e storia, vita e cultura della minoranza ebraica presente in Italia da oltre duemila anni. Questi musei sono in città turistiche come Roma, Firenze e Venezia ma anche a Torino, Bologna, Padova, Trieste o in piccoli centri dove le comunità ebraiche sono ridotte a poche famiglie oppure sono scomparse del tutto come Asti, Carmagnola, Fondi, Pieve di Cento o Soragna: luoghi importanti o con poche sale espositive che raccontano una parte di storia italiana vista da un angolo inconsueto e, a volte, sorprendente.

Foto di Marco Caselli Nirmal

NON COSTITUISCONO formalmente una rete: ciascuno – con l’eccezione del Meis, il Museo nazionale dell’ebraismo italiano e della Shoah di Ferrara – è legato soprattutto alla realtà locale di cui espone arredi liturgici, manufatti tessili, argenti e antiche stampe ma narra anche il legame con il territorio e la sua storia, ebraica e non solo. Sono molti i siti archeologici o i musei che contengono tracce della presenza ebraica ma quelli specificatamente ebraici presentano l’ebraismo, i suoi valori e le sue tradizioni con una capacità di narrazione autonoma. Sale che raccontano il ciclo della vita, il calendario lunare, l’alternarsi delle feste, l’alfabeto, tessono così la vicenda dell’eccezionale continuità di un cammino ricco e ininterrotto per oltre duemila anni durante i quali le comunità ebraiche hanno partecipato della cultura italiana tra periodi di relazioni feconde e quelli segnati da persecuzioni fino alla tragedia delle leggi razziali fasciste e della Shoah.

A VENEZIA il museo in Campo di ghetto nuovo, ha riaperto, per ora, con orario ridotto «Ma siamo soddisfatti – spiega Michela Zanon, responsabile Coopculture per i musei ebraici di Venezia e Padova – abbiamo già potuito contare su oltre cento visitatori». Non come quando Venezia è piena di turisti «ma abbiamo uno zoccolo duro di visitatori veneti, gruppi parrocchiali o del dopolavoro. Certo non è così che si arriva ai quindici, ventimila visitatori di un anno normale; adesso si tratta di un pubblico quasi casuale che però si è rivelato particolarmente interessato. In questi mesi abbiamo lavorato in modo diverso dal solito, utilizzando moltissimo i social e postando video». I filmati – di cui due sono stati realizzati in collaborazione con i vari musei ebraici italiani – sono dedicati alle due festività ebraiche finite incastrate in questi mesi di reclusione forzata: Pesach, la pasqua ebraica e Shavuoth che celebra il dono dei dieci comandamenti.

L’attitudine locale dei musei ebraici è testimoniata dal racconto della comunità ebraica di Merano con la storia dei sanatori e delle acque curative che attraevano da tutta Europa turisti – anche ebrei – all’inizio del secolo scorso. Mentre, all’estremo sud della penisola, il museo di Lecce – inaugurato nel 2016 da un gruppo di privati – raccoglie le tracce degli ebrei del Salento. Espulsi da tutto il sud nel XVI secolo dai re cattolici spagnoli, gli ebrei lasciarono impronte toponomastiche e usi di cui si è persa l’origine:

«Cerchiamo di rintracciare la presenza ebraica del territorio – spiega Fabrizio Lelli, direttore del museo – e di creare un centro di ricerca sull’ebraismo del Mediterraneo. Non è un percorso museale classico perché molte delle memorie ebraiche del sud sono sparse in tutto il mondo. Partiamo da un frammento di storia per arrivare al mondo contemporaneo». Lo staff lavora con le guide turistiche locali, organizzando visite nella regione. «Spesso il pubblico resta sorpreso, vengono qui a vedere il barocco leccese e trovano anche noi. Abbiamo visitatori da tutto il mondo, per lo più stranieri che scoprono di avere un passato ebraico di cui non sanno nulla. Noi cerchiamo di offrire le prime risposte».

NON È SPECIFICATAMENTE ebraico il Museo della memoria e dell’accoglienza di Santa Maria al Bagno che pure, con foto e filmati, descrive i campi di transito verso l’allora Palestina sotto mandato inglese, destinati agli ebrei sopravvissuti allo sterminio e in fuga dall’Europa dopo la seconda guerra mondiale.

Foto di Marco Caselli Nirmal

A CASALE MONFERRATO, dove la comunità ebraica è ridotta ormai solo a una coppia di famiglie, sono due anche i musei: uno destinato alle arti antiche e la cui visita prevede anche il giro della sinagoga e l’allestimento sul ciclo della vita ebraica e le feste, e un secondo che, eccezione nel panorama nazionale, è tematico: la raccolta è costituita da 280 candelabri: si chiama infatti «il museo dei lumi». Sono lampade per la festa ebraica di Chanukkà realizzate appositamente per questa collezione da artisti contemporanei – si va da Arnaldo Pomodoro a Roberto Borghi, fino a Emanuele Luzzati.

Il Meb di Bologna, situato nella zona dell’ex ghetto, è gestito invece da una fondazione che vede insieme istituzioni ebraiche e enti locali. Raccoglie e racconta la realtà di oltre trentadue comunità che nei secoli hanno vissuto in Emilia Romagna. Per restare in contatto con i suoi frequentatori il museo ha svolto in questo periodo e continua a organizzare moltissimi eventi in rete: il gruppo dei lettori prosegue i propri appuntamenti online sulla letteratura israeliana contemporanea; ci sono stati cinque viaggi letterari in collaborazione con il Goethe Institut e non si sono mai interrotti i progetti didattici e i corsi di ebraico.

C’È UN FILO ULTERIORE che unisce tante realtà diverse: è un’esortazione condivisa, un invito pressante che giunge da ciascuno di loro. «Vi aspettiamo», dicono i direttori o spiegano nei loro siti: è un appello all’incontro e alla cultura.