Affidato a una scrittura pregevolmente démodée, dotata dei giusti fiati, trasparente e laconicamente crudele, l’ultimo romanzo di Paul Harding, Enon (Neri Pozza, traduzione di Luca Briasco, pp, 232, euro 16) ha un incipit ammirevole che, prolungandosi per una quindicina di pagine, vale la lettura dell’intero libro, e consiste nella esposizione elementare della tragedia che ha fatto irruzione nella vita del protagonista, circa un anno prima che il racconto abbia inizio. La confusione che ne segue, la tardiva sintonizzazione del nuovo assetto mentale alla recente disposizione dei fatti, l’oscillare fra l’illusione che il prima sia ancora vigente e la intollerabile consapevolezza di un adesso non emendabile, in cui il tempo sembra essersi fermato nonostante la realtà esterna continui a fluire irrispettosamente ignara di quanto è successo, tutto questo scorre lentamente – ma non senza tensione – contando su una lingua che si era già imposta al debutto di Harding con L’ultimo inverno, il romanzo premiato dal Pulitzer nel 2010, anche quello – come quest’ultimo – esaltato, nella sua eleganza, dalla traduzione di Briasco.
Dunque, Charlie Crosby è di ritorno da una camminata nei boschi lungo il fiume Enon, si affretta verso la macchina mentre comincia a cadere la pioggia, dal finestrino vede il cellulare dimenticato sul sedile e si compiace che nessuno lo abbia rubato, se lo stringe all’orecchio mentre già ha avviato la sua Station Wagon. C’è un messaggio della moglie: Kate, la loro figlia di tredici anni è stata investita da un’auto mentre era in bicicletta. È morta. Mentre Crosby mette a fuoco quanto è successo, qualcuno picchia sul cofano della sua macchina, è una donna che inveisce: non si è accorto, Charlie, che stava travolgendo una passante con il suo bambino?
Da qui l’avvio di una spirale persecutoria, dove alla morte della figlia si aggiunge il dolore fisico di una frattura multipla alla mano, e subito dopo la partenza della moglie e la sua interruzione di ogni contatto, incredibilmente, per sempre. Tempo una ventina di pagine, e lo spazio narrativo si spopola, Charlie resterà solo a condividerlo con i suoi fantasmi, e con le immagini di Kate che via via si impongono ai suoi pensieri, mentre tutta l’azione che anima il romanzo si riduce a poche uscite di casa per procurarsi gli antidolorifici, sempre più necessari.

Charlie è un uomo modesto, di buona indole, una persona civile, che faceva il giardiniere nelle case del vicinato, all’occorrenza qualche lavoro di muratura, ora più nulla. Campa con i soldi che l’assicurazione gli ha versato dopo l’incidente, riprende contatti con un compagno di lavoro che è diventato uno spacciatore, arriva a intrufolarsi nella casa di una coppia di anziani per rubare loro gli antidolorifici prescritti all’uomo, da poco reduce da una operazione. La scena, forse la migliore del libro, è commovente: nel tranquillo villaggio di Enon basta la pressione di una mano sulla maniglia e chiunque può entrare dovunque: Charlie si è appena messo in tasca scatole e scatole di farmaci indispensabili a lenire il dolore del povero vecchio, quando quello compare sulle scale scambiandolo prima per il figlio, poi per il fratello. Ha bisogno di aiuto, i punti della sua ferita hanno ceduto. Chino su di lui Charlie prova a rimediare, finché compare la padrona di casa e non gli resta che fuggire.
Tutto, e prima di ogni altra cosa egli stesso, va in rovina, la sua mente che non oppone resistenza al dolore, il suo fisico devastato, la casa ridotta un letamaio, finché il rimprovero di una vicina nella cui abitazione Charlie si era introdotto, questa volta per inseguire un ricordo di infanzia, non lo scuote quel poco che serve a renderlo consapevole di essere diventato, se non una leggenda, almeno una presenza inquietante di cui tutti parlano. Perciò l’epilogo sarà una presa di coscienza delle ragioni che si nascondono dietro la sua ostinazione, e Charlie si dirà che l’arroganza con cui aspira alla «tragedia assoluta» è un modo deliberato per tenere viva dentro di sé la violenza dell’impatto tra quell’auto e sua figlia, come se lasciare che quel ricordo si indebolisca equivalga a tradirla. Harding è a Roma per presentare il suo libro, e si capisce che ne è ancora coinvolto tanto da parlarne volentieri.

Per fortuna nulla di ciò che racconta nel suo romanzo le è accaduto nella realtà: non si è trattato di depositare sulla pagina qualcosa che faceva pressione sul pensiero. Perché, dunque, sottoporsi alla immedesimazione gratuita in un dolore così devastante com’è quello che prova il suo protagonista?

Se ho deciso di infliggere a me stesso il dolore di una perdita così grave è stato perché volevo cercare di scoprire dov’è che un personaggio simile a me per carattere e inclinazioni potesse trovare un barlume di speranza, proprio nella consapevolezza che io la perderei completamente. Ho evitato di svolgere ricerche sulla rappresentazione del dolore, perché avrei finito con lo scriverne una trattazione astratta, e il personaggio sarebbe venuto fuori come una marionetta. Quel che invece ho fatto è sedermi in una stanza con Charlie e ascoltare la sua voce mentre rende conto di quanto gli è successo; durante tutta la stesura del romanzo avevo come modello le Confessioni di Agostino. Charlie descrive quel che fa in modo franco, esauriente, senza volersi giustificare ma anche senza condannarsi, senza ricorrere a eufemismi, o dissimulazioni, o tentativi di razionalizzare la contraddizione fra ciò che sa, e che lo porterebbe a agire per il meglio, e ciò che fa, ossia cedere alle derive del dolore. Quasi si inventa una piccola religione pagana, che si nutre del culto della figlia, ha una sua liturgia comprensiva delle passeggiate al cimitero, e prevede la costruzione di piccoli simulacri, evidentemente mai adeguati a colmare l’assenza di Kate. A un certo punto, Charlie arriva a pensare di annegarsi nel lago, perché si sente andare a fuoco, e spera che l’acqua lo spenga.

Lei ha dovuto prima immedesimarsi nella perdita di lucidità di Charlie, poi trasferire quella confusione psichica nella scrittura, e per farlo ha dovuto ritrovare una capacità di messa a fuoco dei fatti e delle immagini che scorrono nella mente del protagonista. Come ha lavorato a produrre questa oscillazione di stati d’animo così contraddittori?

All’inizio del libro il mio Charlie è un uomo qualunque, proveniente da un ceto medio-basso, che si mantiene con il suo lavoro, dunque conduce una vita a noi riconoscibile. Quando ci parla dell’amore per sua figlia lo fa in un linguaggio che ci appare anch’esso consueto; ma dopo l’incidente quello stesso linguaggio non funziona più, deve cercare modi nuovi di ordinare il pensiero e poi esprimerlo: tenta di improvvisare una esperienza che riesca a contenere la perdita della figlia, e piano piano si sforza di emergere dalla corrente di fondo che lo trascina giù. Ma poiché intanto beve e abusa di antidolorifici, il suo sforzo mentale coincide con un deterioramento fisico e ha pensieri allucinatori: da una parte vorrebbe capire più a fondo quanto gli succede, dall’altra vede che questo non lo porta a agire meglio. È un po’ la situazione che descrive Paolo nella sua Lettera ai Romani. A mio parere questo non è un romanzo disperato, direi piuttosto che evoca la minaccia che la disperazione invada il campo, questo sì, perché è la storia di un uomo devastato, che si autoreclude in una sorta di cella monastica; ma poi, strisciando con grande fatica, ne viene fuori.

Ancora più che nel romanzo precedente, «L’ultimo inverno», qui in «Enon» gli orizzonti sono singolarmente ristretti, i movimenti mentali ossessivi, l’assenza dei dialoghi pressoché totale. Non c’è conflitto e dunque nessun climax del peraltro inesistente intreccio. Avevamo parlato, a proposito del suo romanzo precedente, del rischio implicito in una scrittura che, a tratti, indugia troppo nel privilegiare la dimensione estetica: qui la sfida era ancora più alta, perché si trattava di restituire consistenza al dolore e ai fantasmi di una mente, senza speculare sull’empatia del lettore. Quali strategie ha messo in atto per tenere sotto controllo la scrittura?

Poiché la vita della mente mi interessa così tanto anche sul piano estetico, va a finire che i miei personaggi si identificano con l’esperienza del loro pensiero più che con la loro relazione con il mondo. Qui il problema era proprio di non focalizzarmi su quanto passa per la testa di Charlie fino a perdere completamente di vista ciò che succede all’esterno. Forse per questo ho pensato di consegnarlo a un raggio di movimenti limitato: sono le sue emozioni il vero tramite con il contesto. La cittadina di Enon è dotata di una coscienza che lo comprende e in qualche modo si fa carico di lui. Per mettere tutto questo sulla pagina ho dovuto lavorare un po’ come un miniaturista. Avevo a diposizione una voce sola e un paesaggio elementare, fatto di un lago, un cimitero, una casa. Sentivo nella testa la voce di Charlie e non ho fatto altro che trascriverla, come sotto dettatura, a mo’ di amanuense. Non ci sono trucchi nel mio romanzo, si capisce subito che non ho voluto scrivere una narrazione postuma, alla Emiliy Dickinson, e il lettore ha chiaro fin dall’inizio che Charlie non si farà fuori. Al tempo stesso, deve continuare a produrre fantasie sulla figlia perché se si fermasse resterebbe pietrificato, come Medusa. Trovare le metafore giuste è il suo modo di mediare il dolore. La sfida era quella di dare una dimensione estetica, una complessità, e spero una sua bellezza a un romanzo basato sulla vita modesta di un personaggio che non volevo finisse per trasformarsi in un eccentrico, e per il quale non intendevo ricorrere a pensate improbabili.

Nel giro di poche pagine Susan, la moglie di Charlie, parte senza fornire alcuna spiegazione e non si fa mai più viva. Non crede che questo monopolio dello spazio romanzesco da parte di un solo personaggio abbia anche a che vedere con il fatto che lei non ama costruire i dialoghi?

Non so, il libro mi si è presentato da subito come un soliloquio, e ho pensato che il matrimonio di Charlie fosse destinato a durare finché aveva una figlia in comune con Susan, poi lo vedevo svaporare. L’idea era di fare arretrare lentamente Susan sullo sfondo per consentire a Charlie di venire in primo piano. Se confrontiamo questo romanzo con L’ultimo inverno a me pare che i dialoghi non siano pochi; però è vero che le persone di cui si popolano le mie pagine non sono loquaci, sono poco inclini alla socializzazione, e questo credo abbia a che vedere tanto con la famiglia dalla quale provengo, che con la mia inclinazione stilistica, perché anche se non mi sembra di evitare i dialoghi, di certo non mi vengono naturali, non me ne sento attratto, almeno non per ora.

In realtà, molte fra le sue pagine migliori si concentrano sulla descrizione dettagliata di ingranaggi fisici più che mentali, per esempio i congegni che fanno funzionare un orologio, o si estendono in lunghe descrizioni del paesaggio…

Poiché credo che la narrativa abbia a che fare con la drammatizzazione di eventi e non con una somma di astrazioni, ciò che mi sta a cuore è prendere le congetture metafisiche dei miei personaggi e ancorarle al mondo esterno tramite gli strumenti della lingua: sostantivi, aggettivi, verbi. Il soggetto del mio romanzo non è il dolore di una perdita, ma una determinata persona con le sue peculiarità, e dunque uso le sue percezioni come un telescopio, puntandolo ora verso oggetti materiali ora verso ciò che lo circonda. Tutto ciò che si vede nel romanzo è rifratto dal suo occhio. Anche il paesaggio non sta lì per una sua ragione intrinseca, ma per dare più informazioni sul personaggio.