Europa

Tutele crescenti per i padroni e decrescenti per i lavoratori

La legge Reintegrazione solo in casi residuali, indennità non più «risarcitoria» ma legata all’anzianità, datori di lavoro che licenziano «premiati», assunzioni a lungo termine scoraggiate. Cosa cambia con il Jobs Act

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 20 marzo 2015

Il legislatore manca di rispetto ai cittadini quando usa in modo improprio le parole, illudendoli che le norme abbiano un significato diverso da quello che hanno effettivamente. Facciamo un esempio: il Contratto a tutele crescenti, in realtà, non è un contratto, né prevede tutele crescenti per i lavoratori. Si tratta, invece, di un’abrogazione camuffata dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Per la prima volta dal 1970, la tutela così detta forte contro il licenziamento illegittimo (consistente nel diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro ingiustamente cessato e/o in un risarcimento del danno dignitoso, fino a 24 mensilità), non si applicherà più ai nuovi assunti a partire dal 7 marzo 2015. L’unica cosa che sarà, quindi, effettivamente crescente nel tempo è il numero di lavoratori esclusi dalla tutela dell’art. 18. Ma forse si intendevano «tutele crescenti per i datori di lavoro». Allora l’espressione è giusta.

Con la novella, la reintegrazione nel posto di lavoro si potrà ottenere solo nei residuali casi di licenziamento orale, nullo o discriminatorio, sempre che si riesca a darne la difficile prova in giudizio. Negli altri casi si avrà diritto solo ad un’indennità che non sarà più «risarcitoria» (come invece prevede l’art. 18) in quanto non legata al danno subito dal lavoratore, ma semplicemente alla sua anzianità di servizio: due mensilità dell’ultima retribuzione per ogni anno di servizio, con un minimo di quattro e un massimo di ventiquattro mensilità (art. 3, comma 1). Per poter arrivare ad una somma di 24 mensilità, il lavoratore dovrà avere un’anzianità di servizio di almeno 12 anni. Ma sarà difficile arrivarci, visto che questo inedito legame del «costo di separazione» agli anni di servizio, più che incentivare le assunzioni a tempo indeterminato, sembra scoraggiare l’investimento a lungo termine sui lavoratori. È probabile che la crisi del settimo anno contagi anche i rapporti di lavoro, oltre quelli amorosi. Peraltro, sarà più facile licenziare perché per rendere effettiva l’estinzione del rapporto di lavoro, grazie al Jobs Act (rectius, decreto legislativo n. 23/2015), basta imputare al lavoratore un fatto qualsiasi, purché sussistente, non importa se non così grave da giustificare un licenziamento. La riforma, infatti, preclude al giudice l’indagine sulla proporzionalità tra fatto commesso dal lavoratore e recesso del datore. E’ quindi possibile che si perda il posto di lavoro, ad esempio, per essere arrivati al lavoro in ritardo.

Altra novità dal sapore ottocentesco è il venir meno della previsione (contenuta, invece, nell’art. 18) del diritto alla reintegra nel caso di illegittimo licenziamento del lavoratore in malattia o infortunio (senza superamento del periodo tutelato, così detto di comporto), con il rischio che, persino in questi casi, il licenziamento, seppure illegittimo, resti efficace.

Il datore di lavoro che licenza ingiustamente viene, dalla riforma, persino premiato, come risulta dalla disposizione che concede allo stesso la possibilità di evitare il giudizio offrendo al lavoratore una somma non solo dimezzata nell’importo, ma anche depurata da oneri contributivi. Per consentire tale tutela del datore che licenzia ingiustamente si dovranno accantonare importi crescenti negli anni (ecco le tutele crescenti!) di risorse pubbliche: 2 milioni di euro per l’anno 2015, 7,9 milioni di euro per l’anno 2016, 13,8 milioni di euro per l’anno 2017, 17,5 milioni di euro per l’anno 2018, 21,2 milioni di euro per l’anno 2019, 24,4 milioni di euro per l’anno 2020, 27,6 milioni di euro per l’anno 2021, 30,8 milioni di euro per l’anno 2022, 34,0 milioni di euro per l’anno 2023 e 37,2 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2024. Si noti, infine, che tali risorse verranno attinte da quelle riservate, tra l’altro, agli ammortizzatori sociali, ai servizi per il lavoro e le politiche attive. In altri termini, mentre i datori di lavoro scorretti vengono premiati, i lavoratori licenziati ingiustamente vengono penalizzati due volte: prima riducendone la tutela contro l’ingiusto licenziamento, poi riducendo la tutela per la consequenziale disoccupazione.

In questo diritto del lavoro capovolto in cui il soggetto che il legislatore si preoccupa di tutelare non è più quello debole ma quello forte, in cui la libertà sindacale ed il controllo giudiziario, invece che garanzia di uguaglianza e democrazia vengono ridotti a fastidiosa limitazione della discrezionalità imprenditoriale, in cui a forza di ridurre le tutele dei lavoratori si è arrivati ad intaccare i diritti fondamentali, non resta che affidarsi alla Carta Costituzionale e a quell’art. 1 che ponendo il lavoro a fondamento della Repubblica italiana, ci ricorda che dal lavoro dovrebbero dipendere le politiche economiche e l’economia. E non viceversa.

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