Vite da mediani. A correre e portar palla avanti, perché altri segnino in porta e si prendano la gloria. Oppure vite da bomber. Ma con saporiti intermezzi in cui il proprio talento, più o meno remunerato a seconda delle occasioni, ma non da protagonisti, splenda nell’arricchire il lavoro degli altri, contribuisca a far squadra e risultato. Fuor di metafora: vite da turnisti, quella categoria negletta e poco conosciuta che in sala di registrazione dona profumi ed essenze speciali ai lavori musicali degli altri. Comparsate o intermittenza di presenze che possono fare la differenza, se ben usate. Comunque, interventi che possano costruire «quel» suono, di lì in avanti magari inconsapevolmente associato direttamente e riconoscibile per l’uso di un timbro, di una sonorità, di un colore strumentale che ha fornito calore ed essenza a un brano. Vite intere (o a volte, al contrario, solo intermezzi piacevoli) da turnisti. Una faccenda piuttosto diffusa, prima nel mondo del jazz (dove però l’arte dell’incontro è stata prerogativa sin dagli esordi, considerata la natura dialogica perfetta di quelle note), poi nel mondo del rock in varie declinazioni, da quello più mainstream alle nicchie che praticano musiche popular sì, ma decisamente da ascrivere in territori d’arte. Ecco qualche esempio e storie di celebri, celeberrimi o ignorati turnisti, o sidemen o session men, a seconda della definizione preferita.

L’ARCHETIPO
Iniziamo con l’archetipo rock dei turnisti: i signori John Lennon, Paul McCartney, George Harrison e Pete Best (Ringo Starr dietro pelli e piatti era ancora da venire). Proprio il batterista originale dei Beatles è la chiave per comprendere il primissimo approccio da session men dei Beatles: era amico di Tony Sheridan, brillante songwriter e chitarrista, assai attivo su quell’asse Inghilterra-Germania che era gavetta obbligata all’inizio degli anni Sessanta. Finiscono per suonare assieme, e Tony Sheridan scopre che quel gruppo ha più consistenza della sua band abituale, i Jet. Succede così che quando viene contattato da un produttore per avere i nastri per un intero disco Sheridan non ci pensi due volte, e convochi in studio ad Amburgo i quattro, ribattezzati per l’occasione The Beat Brothers. Il disco, registrato nel giugno del 1961, uscirà accreditato appunto a Tony Sheridan & The Beat Brothers, titolo My Bonnie. Saranno proprio questi nastri a far scoprire a Brian Epstein i Beatles. Il resto è storia non nota, ma notissima. Anche se vale la pena rammentare che nel disco da turnisti con Tony Sheridan c’è l’unico brano a firma Harrison/McCartney, Cry for a Shadow, nato in pratica da un’improvvisazione a due chitarre.

Appena un anno dopo le primordiali registrazioni da turnisti dei Beatles è già in giro sui palchi da solista il diciassettenne Eric Clapton, che a diciotto è con gli Yardbirds, e a venti negli swinganti Bluebreakers di John Mayall, veterano della scena blues d’Albione. È il 1965: sui muri della metro di Londra compare la scritta «Clapton Is God», e il ragazzo, assai determinato ma ancora timidissimo, è richiesto a destra e manca per il suo talento evidente sulla sei corde. Più facile dire con chi non suoni, il «dio» Clapton, piuttosto che il contrario. Alla rinfusa: Beatles, Otis Spann, Champion Jack Dupree, George Harrison, Aretha Franklin, John Lennon, Leon Russell, Billy Preston (peraltro altro sideman principe), il superduo Delaney & Bonnie, Buddy Guy, Junior Wells, Freddie King, John Martyn, Roger Waters, Bob Dylan, Jack Bruce… un’enciclopedia delle note popular, insomma. Nel 1989 lo troviamo a sorpresa in Insecurious di Cyndi Lauper e nello stesso anno, a rilanciare il talento di Carole King, dopo una pausa durata sei anni per la cantautrice, in City Streets. In buona compagnia: con Branford Marsalis, Michael Brecker, Omar Hakim. Nel 2003 è lui il chitarrista acustico in Again della soul e r&b singer Kelly Price, nel 2017 è in Dive del pop singer Ed Sheeran, nel 2019 è ospite degli storici space rocker Hawkwind di Road to Utopia. Ancora più curiose e imprevedibili le partecipazioni a Stomping Ground, disco di Dion, 2021, e a One of Those Days di Ozzy Osbourne, 2022: partnership in età ultrapensionabile, ma quasi impensabili.

TOCCO GARANTITO
Di quattro anni più giovane un altro chitarrista inglese dalle immense fortune, anche economiche, e attivo come sideman in un bel florilegio di situazioni. Fa da garanzia il suo tocco sulla sei corde, suonata con le dita e non a plettro, riconoscibile quasi all’impronta. Lui è Mark Knopfler, già colonna portante dei Dire Straits, il gruppo che riportò la «classicità» rock in un’Inghilterra musicale scossa alle fondamenta dall’onda di piena del punk, dalla nascita nella new wave of British heavy metal, dal revival dello ska e parecchio altro, allo scorcio degli anni Settanta. Dunque, gran gioco accordale, assoli da manuale, e testi ben meditati e ben scritti da un signore tranquillo laureato in lettere. Nel 1979 è chiamato alla corte del Joker Zimmerman in arte Bob Dylan, per lasciare il suo segno chitarristico su Slow Train Coming. Il disco è pesantemente condizionato dal momento di fervore mistico debordante di Dylan, ma Knopfler fa lievitare la pura materia sonora facendo dimenticare certi eccessi da «cristiani rinati». Disco da mettere a confronto, per paragoni, con un’altra importante presenza di Knopfler: Beautiful Vision di Van Morrison, 1982. Nell’83 Knopfler, a sbornia mistica dylaniana esaurita, sarà di nuovo in studio, e anche alla produzione per Infidels, uno dei dischi più riusciti della «rinascita laica» del nostro. Sarà presente anche in Down in the Groove, 1988. Knopfler ci prende gusto a collaborare in studio da sideman (ma spesso è anche produttore): nell’86 è in sala con Tina Turner per Break Every Rule, nell’87 in Miracle di Willy DeVille, dove il fondatore dei Dire Straits chiama a suonare anche il suo mito personale chitarristico, Chet Atkins, suonerà in ben tre dischi del chitarrista americano, e poi ci farà uno splendido disco assieme. Nell’88 Knopfler lascia il segno su The Shouting Stage, un disco ingiustamente sottovalutato di Joan Armatrading e su Land of Dreams di Randy Newman. Impossibile riassumere tutte le partecipazioni da turnista con un brano, in dischi altrui, anche e soprattutto in anni recenti: ne citiamo una per tutte, What’s Broken, per l’indimenticabile David Crosby di Croz.

AL POSTO GIUSTO
L’anagrafe segna un anno prima della nascita di Clapton per Jimmy Page, oggi ottantenne, ma nelle teche rock memorabile come chitarrista dei Led Zeppelin. Come Clapton, Page è al posto giusto al momento giusto, nell’Inghilterra della prima metà anni Sessanta, quando i chitarristi di valore sono merce appetita. Nel 1968 Page, appena alle spalle la bruciante avventura con gli Yardbirds, piazza uno dei suoi colpi più significativi da session man: è lui a maneggiare le corde e gli assolo in With a Little Help from My Friends, il disco di Joe Cocker che poi segnerà anche il trionfo per il leone di Sheffield, sui palchi di Woodstock, l’anno dopo. Page suona in cinque brani, compresa la title-track, con le lunghe lancinanti note tenute che ne fanno «la» versione da ricordare del brano dei Beatles, in originale un dinoccolato country rock, ma ora salto di carriera per Cocker. E prima? Un diluvio di lavori da mediano della chitarra. Che appare ad esempio in Goldfinger, tema guida del film di James Bond del ’64, calcato in realtà spudoratamente su Moon River, e medesimo anno per il lavoro (da armonicista blues!) per Stirs Me Up di Otis Spann, blues di Chicago in trasferta europea. Sempre 1964, ma alla sei corde ritmica: Baby Please Don’t Go, per Van Morrison alle primissime armi con i Them. Il lato a del singolo a 45 giri, Gloria, oscura il lato b. Ma lui c’è, eccome. Come c’è, all’inusuale dodici corde, in I’m a Lover not a Fighter dei Kinks, medesimo anno, e udite udite, a fornire parti di chitarra per A Hard Day’s Night, il film dei Beatles. Arriva il 1965, Jimmy Page è il chitarrista dietro The Last Mile, uno dei primissimi dischi incisi dalla modella tedesca Nico, che diventerà poi la musa poetica dei Velvet Underground, e in Bald Headed Woman della rinomata ditta Who. Ce n’è anche un’altra di musa in quell’anno, Marianne Faithfull: Page maneggia le corde in In My Time of Sorrow, e supporta poi la roca vocalist in tour. L’anno successivo decisivo contributo in studio per Sunshine Superman, piccolo capo d’opera folk psichedelico per Donovan, e altrettanto notevole apporto, nel 1967, a Jeff Beck’s Bolero, per l’amico chitarrista appena uscito dagli Yardbirds, in cui Page suona tra il ’66 e il ’68. A fianco ha John Paul Jones, di lì a breve bassista con gli Zeppelin. Ha raccontato poi lui stesso: «Mi capitava ai tempi di fare anche tre session in un giorno, quindici a settimana. A volte suonavo per un gruppo, a volte partecipavo a musica per film, a volte a sedute di musica folk. Mi adattavo a tutto».

«UNSUNG HEROES»
Sin qui quelli famosi, anzi, famosissimi. Vale la pena allora ora tentare un affondo su uno dei «mediani della sala di registrazione» meno noti al grande pubblico, un «unsung hero», come dicono gli anglosassoni, ma decisivo per la costruzione di grandi dischi classici nella storia del rock. Forse «il sideman» per eccellenza, Nicky Hopkins. Il caso vuole che quest’anno ricorrano i trent’anni dalla prematura scomparsa, 1994, cinquantenne. Era nato nel 1944, dunque avrebbe compiuto ottant’anni. The Session Man, così si intitola il documentario da novanta minuti che lo scorso anno gli ha dedicato il regista Mike Treen, a conferma che lui è stato «il» session man per eccellenza. Presente in oltre duecentocinquanta ellepì, a dispetto di ben pochi dischi a proprio nome: quattro in totale, di scarsissimo risultato commerciale, più qualche colonna sonora. Aspetto timido e gentile, fisico esile e fragile, lunghi capelli neri, le dita nervose sul pianoforte a scolpire riff memorabili e imprevedibili melodie, Nicky Hopkins, inglese presto anche in trasferta statunitense, aveva iniziato giovanissimo, a sedici anni, con i gruppi inglesi che suonavano il beat infiltrato di r&b. Poi lo notano i Beatles (suona col gruppo ad esempio in Revolution e poi con ogni singolo componente nei dischi solistici!), i Kinks, The Who, Donovan, The Pretty Things, Joe Cocker, i Led Zeppelin (che lo avrebbero voluto come membro effettivo della band, ma dovettero rinunciare), e ha parecchio a che fare con i Rolling Stones: inizia con Between the Buttons, 1967, prosegue con Beggar’s Banquet, e su su, fino a Tattoo You, 1981. Il piano che si ascolta in Angie, Sympathy for the Devil, She’s a Rainbow, Gimme Shelter, ad esempio, è il suo. E quando la salute glielo consente, è anche con loro su palchi stellari. Negli States, dove era andato in tour con il Jeff Beck Group, e dove sceglie di fermarsi a San Francisco, registra con la Steve Miller Band, con i Jefferson Airplane possenti di Volunteers (è con loro anche sul palco di Woodstock!), diventa una sorta di «membro fantasma» in studio, ma accreditato nei dischi) dei ruggenti e psichedelici Quicksilver Messenger Service, presta i suoi ottantotto tasti a Meat Loaf, Graham Parker, Gary Moore, Art Garfunkel. Muore a Nashville, il fisico fragile minato anche da droghe, sigarette e alcol, e se ne va, per usare le parole di Bill Wyman dei Rolling Stones, «il più grande pianista di tutti i tempi del rock’n’roll».

Altri session men condividono la sorte di Hopkins di «musicista per musicisti», e mai frontman, su numeri decisamente più contenuti. Ad esempio il tastierista dell’Alabama Chuck Leavell, un nome pregiato che tutti gli appassionati di classic rock conoscono, oggi settantaduenne e sempre in piena attività. Il motivo per cui qualche stilla di notorietà in più la ha è che ha fatto parte come membro effettivo nel pieno degli anni Settanta dei gloriosi Allman Brothers Band, gruppo seminale per tutto il southern rock, un genere ancora oggi molto amato, e poi dei Sea Level, in pratica una propaggine degli stessi Allman, su versanti stilistici più funk e blues. Chuck Leavell è anche in pratica il «doppio» speculare di Hopkins per le sue durature collaborazioni a dischi dei Rolling Stones, iniziando dove Hopkins aveva finito, da Undercover, 1983, per arrivare fino ad Hyde Park Live, di trent’anni dopo, 2013. In totale fanno undici dischi. E una quarantina d’anni abbondante sui palchi con loro, nominato «musical director» per meriti sul campo, con i suoi leggendari bloc notes dove annota scrupolosamente cosa è successo nel corso della serata. Keith Richards lo adora, e dice di lui che è il «Gentleman del Sud». Nel ’90 è con i Black Crowes di Shake Your Money Maker, a proposito di caldo rock del Sud, l’anno successivo con Eric Clapton in 24 Nights e nel ’92 in Unplugged. Tra le altre medagliette da appuntarsi sul petto come cursus honorum partecipazioni a dischi importanti della Marshall Tucker Band, Gov’t Mule, George Harrison, Blues Traveler, Aretha Franklin, Dr. John. La collaborazione più inattesa? Forse quella con David Gilmour per il pleonastico Live at Pompeii (sic), 2016. Con bella ironia, a chi gli ha chiesto il motivo di così tante richieste ha risposto: «Perché costo poco». Risposta che cela un amore smisurato per la musica. E un divertimento costante, nei decenni.

DI TUTTO UN POP
La triade dei turnisti d’oro dietro gli ottantotto tasti potrebbe concludersi con il grande Billy Preston da Houston, Texas, altro prezzemolo di presenze nella storia del rock e delle musiche nere, a dispetto di una vita assestatasi su cinquantanove anni secchi. Presenze facilmente intuibili fin dall’inizio, visto che a dieci anni Preston già accompagnava al piano la grande vocalist gospel Mahalia Jackson, e a sedici Little Richard. Il passo successivo è con i Beatles di Let it Be, disco e film, poi suona in Abbey Road, ed è con loro nel memorabile concerto d’addio sul tetto degli studi della Apple, appare in Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, il film: e proprio nella parte del Sergente Pepe. Avventura proseguita poi in epitome in molti dischi «solo» di George Harrison, ma, come per Hopkins e Leavell, ci sono anche i Rolling Stones, da Sticky Fingers in avanti, e fino a Black and Blue, 1976 e poi Eric Clapton, il Bob Dylan essenziale di Blood on the Tracks, Elton John, Red Hot Chili Peppers, Sam Cooke, Miles Davis, J. J. Cale (il favoloso Road to Escondido, con Eric Clapton), Sly Stone, Aretha Franklin, e i meno prevedibili impegni con le due bordate di rock duro e raffinato di Dream Theater e Tool. E che dire delle sorprendenti collaborazioni con Zucchero e Nino D’angelo? Di tutto un pop.

Si diceva di hard rock. Il nome d’oro dei session men è ancora una volta quello di un tastierista, e con diploma classico a pieni voti. Don Airey, dal 2002 anche membro fisso di una band capostipite del suono duro con eleganza, i Deep Purple, ma presente in oltre duecento album. Per citarne alcuni, lavori di Babe Ruth, Brian May, Ozzy Osbourne, Gary Moore, Rainbow, Whitesnake, Jethro Tull, Saxon, Judas Priest. Chiudiamo la storia dei «mediani del rock» con un nome celebre di per sé, Ry Cooder, archivio vivente della liuteria nobile, magnifico solista con decine di dischi a proprio nome, eccellente autore di colonne sonore, ma affezionatissimo sideman in studio a servizio degli altri, spesso con un amico e altro sideman eccellente delle corde, David Lindley. Lo troviamo con i Rolling Stones (anche sotto mentite spoglie, Jamming with Edward, 1972 e con Nicky Hopkins, guarda caso!), Van Morrison, Chieftains, Ali Farka Touré, Jon Hassell, Taj Mahal, Captain Beefhart, i vecchietti magici cubani di Buena Vista Social Club, John Fogerty, John Hiatt, Little Feat, Randy Newman, Eric Clapton, Everly Brothers, il chitarrista indiano Vishwa Bhatt. E la storia continua.