La guerriglia urbana di Istanbul e Ankara, espressione della rabbia per la carneficina in corso a Gaza, fa eco alle dichiarazioni al vetriolo del premier Erdogan che ha accusato Israele di genocidio. Giovedì notte, mentre il mondo leggeva dell’inizio dell’operazione via terra dell’esercito israeliano, 10mila turchi assaltavano con lanci di pietre le sedi diplomatiche israeliane a Istanbul e nella capitale, Ankara.

Alle 1.30 di notte una folla si è ritrovata davanti al consolato israeliano a Istanbul, scandendo slogan («Israele assassino, fuori dalla Palestina», «Hamas, attacca Israele») e sventolando bandiere palestinesi. Alcuni manifestanti sono riusciti a scavalcare il muro intorno alla sede consolare, distruggendo le finestre. Qualcuno ha tentato di penetrare nell’edificio, fermato dall’intervento della polizia turca, che è tornata ad usare i mezzi repressivi saliti al (dis)onore delle cronache durante le proteste del 2013 in piazza Taksim: lacrimogeni e cannoni ad acqua.

Ad Ankara è stata invece presa di mira l’abitazione dell’ambasciatore israeliano: vetri rotti da pietre e una bandiera palestinese issata sulla recinzione. Stavolta la polizia non ha mosso un dito. Un affronto per Tel Aviv che ieri ha reagito richiamando in patria gran parte dello staff diplomatico. Ma a far infuriare i vertici israeliani sono le dichiarazioni politiche delle controparti turche. Se alcuni parlamentari erano presenti giovedì notte ad Ankara (Yildrim dell’AKP, il partito di Erdogan, ha accusato Israele di compiere «un bagno di sangue» e il collega Aydin di «terrorismo di Stato»), le sferzate più cocenti sono giunte dal primo ministro: «La Turchia non sosterrà mai l’aggressione israeliana contro il popolo palestinese. Israele è uno Stato terrorista».

Erdogan, il cui partito è parte della Fratellanza Musulmana, come Hamas, non intende perdere l’occasione di ritagliarsi un ruolo decisivo nell’interruzione dell’attacco facendo leva sul movimento islamista che, messo da parte l’Egitto, insiste che la tregua venga negoziata da Ankara e Doha. Quel ruolo di guida mediorientale Erdogan tentò di ottenerlo con lo scoppio del conflitto siriano abbandonando il vecchio alleato, Damasco, e virando sulle opposizioni al presidente Assad. Una scelta che gli costò l’isolamento, da cui tentò a fatica di uscire riavvicinandosi, via Stati Uniti, all’amico di un tempo, Israele.

Nel 2010 a rompere le cordiali – e economicamente proficue – relazioni tra Ankara e Tel Aviv era stato il sanguinoso raid compiuto dalle unità speciali israeliane contro la nave della Freedom Flotilla, Mavi Marmara, nel maggio 2010. Morirono nove turchi: gli ambasciatori furono richiamati e le relazioni diplomatiche interrotte.

A ricucire i rapporti furono gli interessi economici. Nel marzo 2013 Obama “convinse” Netanyahu a riavvicinarsi ad Erdogan: seguirono scuse ufficiali per il raid e un risarcimento economico alle famiglie delle vittime. La terza richiesta mossa dal premier turco per tornare a parlarsi – la fine dell’assedio di Gaza – passò in secondo piano. Molto più importanti erano i fiorenti affari tra Ankara e Tel Aviv. Subito dopo Netanyahu ha cancellato il divieto di vendita di armamenti alla controparte: immediato l’accordo di vendita di sistemi aerei militari elettronici israeliani alla Turchia. Valore, 100 milioni di dollari.

Ma a mettere il punto finale alla ricucitura dei rapporti è stato il progetto congiunto da 2,5 miliardi di dollari per la costruzione di un gasdotto sottomarino lungo 470 km che da Israele, via Turchia, esporti gas naturale estratto dal ricco bacino Leviatano (425 miliardi di metri cubi di gas) in Europa e nello stesso territorio turco, rendendo così Ankara indipendente dal nemico Iran. Le relazioni tra Turchia e Israele sono sempre state ottime, la Mavi Marmara fu un’eccezione.

Resta da vedere se Erdogan è pronto a barattare questa proficua alleanza con il sostegno ad Hamas, a scambiare gli affari con il ruolo di mediatore della crisi e con la speranza mai taciuta di diventare punto di riferimento politico in Medio Oriente. Uno dei primi target è l’Egitto: ieri Erdogan ha accusato al-Sisi di essere un alleato di Israele. Quello che era lui fino a poco fa e che, probabilmente, tornerà a essere appena il massacro di Gaza sarà terminato.